di Luigi Pandolfi
“Su Avanguardia Operaia nessuno ha scritto niente, anzi, Wikipedia riferisce solo informazioni ricavate dal processo Ramelli: terribili”, scrive Giovanna Moruzzi nella sua introduzione al volume collettaneo “Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia 1968-1977” (Mimesis), curato da Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli, dall’11 febbraio in libreria. Per questo, lei, compagna di Michele Randazzo, tra i principali esponenti di quell’organizzazione, decide di “mettersi in gioco”. Inizia la ricerca di chi ha condiviso quell’esperienza, 110 interviste ad ex militanti, un tuffo in quegli anni belli ed appassionati, i primi anni Settanta, in cui migliaia di giovani, da un capo all’altro del Paese, sognavano di “cambiare il mondo”.
Come altri gruppi della sinistra extraparlamentare di quegli anni anche Avanguardia Operaia è figlia delle lotte studentesche e operaie del biennio 1968-69 e della constatazione che la sinistra “istituzionale” non fosse più in grado di interpretare il vento di cambiamento che era tornato a soffiare sulla società. Ma la peculiarità di Ao consistette nel rigore che riuscì ad applicare allo studio della realtà ed allo stesso modo di stare nelle lotte, privilegiando la concretezza del rapporto con la “classe” e la connessione con i bisogni indotti dalla società del boom economico. Nella fabbrica e oltre la fabbrica, insomma, perché “la condizione di lavoratore”, come scrive Claudio Madricardo in un capitolo del libro, “si riproponeva costantemente nella sua dimensione di padre e di cittadino, all’interno del proprio quartiere, in relazione con la mancanza di servizi sociali”. Lotte per il salario, il contratto e l’orario, insieme alle lotte per il diritto alla casa e contro il carovita. Politica di classe a tutto campo. Fin dentro le Forze armate. Per promuovere “la diffusione delle pratiche democratiche anche negli ambienti militari” e, soprattutto, per “neutralizzare il potere di condizionamento antidemocratico che le forze armate avevano dimostrato di avere”. E poi l’incontro con il femminismo, abbastanza problematico. “Di fronte alla novità, il primo passo della dirigenza di Ao fu quello di cercare lumi nel passato”, scrive Grazia Longoni. Cosa dicevano in proposito la Kollontaj e la Krupskaja? Niente che potesse servire a spiegare quel fenomeno. Infatti, su queste tematiche non ci si capì mai abbastanza tra le donne e gli uomini di un’organizzazione che considerava la militanza “unisex, e totale”.
Il contesto di quegli anni, comunque, non è segnato soltanto dall’esplosione delle lotte degli operai e degli studenti e dalla contestazione delle donne. C’è anche la reazione, palese ed occulta, degli apparati dello Stato al dilagare dei movimenti politici e sociali, e la violenza dei fascisti, che chiama violenza anche “dall’altra parte”. E’ il clima in cui si consuma a Milano, nel 1975, la tragedia del giovane esponente di destra Sergio Ramelli, alla quale faranno seguito “quattro omicidi contro militanti di sinistra, in una crisi dell’ordine pubblico che non si era vista dai tempi della rivolta di Reggio Calabria”.
Dopo il congresso del marzo 1977, Avanguardia Operaia si divise in due tronconi e cessò di esistere come organizzazione autonoma. La minoranza confluì nel Pdup di Lucio Magri, mentre la maggioranza contribuì alla fondazione di Democrazia Proletaria. Sullo sfondo, il fantasma del rapporto con il PCI. Un bilancio di questa esperienza? Pensando a come sono cambiati il lavoro e la società in questi anni non si può fare a meno di parlare di sconfitta. Una “rivoluzione” c’è stata in Italia, ma, per dirla con Luciano Gallino, l’hanno fatta i ricchi contro i poveri.