Ricorre quest’anno il 50°, il 40° ed il 30° anniversario della morte di Togliatti, Gullo e Berlinguer, figure che racchiudono gran parte dell’esperienza dei comunisti italiani. E può esser questa l’occasione per meditarne il retaggio, ripensare il ruolo dei comunisti nella storia del dopoguerra sino alle scaturigini della crisi che ha sconvolto il Paese. L’Italia che ci troviamo nacque infatti con De Gasperi allorché il cammino intrapreso nel ’44 per input di Togliatti – la svolta di Salerno e la scelta riformista e unitaria della democrazia progressiva – fu sbarrato dal rovesciamento della politica rooseveltiana e dalla guerra fredda cui De Gasperi aderì. Nella contrapposizione si distrussero risorse inestimabili e sotto l’egida degli S.U. imperversò un capitalismo selvaggio che se favorì la rapida industrializzazione del Paese, aggravò gli squilibri e precluse modelli di crescita alternativi socialmente più equi. L’impronta di Togliatti e Gullo restò impressa nella riconquista della dell’indipendenza e della libertà; nello sforzo ricostruttivo e nella fondazione dello stato nuovo: la repubblica e la costituzione. Ma quei guasti sono ora venuti al pettine, e la crisi chiude quel ciclo suggerendo fastidiose domande sul declino che investe l’Italia e il suo l’incerto futuro.
La deriva viene da lontano. Berlinguer l’intravide e invano cercò di fermarla con l’austerità, la questione morale, il compromesso storico. Cause e responsabilità appaiono più chiare, ma non fu ininfluente il dissolvimento della sinistra comunista e il venir meno dell’opposizione. Non ha senso cercare gli errori della dirigenza postcomunista quando, spericolatamente, Renzi tenta di chiuder la partita. Bisognerebbe piuttosto spiegarsi per quali ragioni, intrinseche al vecchio PCI, sia potuto avvenire un così grave pervertimento, e la compenetrazione, la resa. Provare a risalire la china e come dice Asor Rosa a “ricreare una cultura politica della sinistra ancorata alla tradizione (tutto quel che c’è di buono al mondo ha un passato e una storia) e al tempo stesso moderna”, impatta altrimenti nodi irrisolti, ed è vana, elusiva. Mentre riflettere su Berlinguer come a Roma l’11 febbraio, su Togliatti e su Gullo pressoché dimenticato; e riconnettersi a quella esperienza e a quella tradizione, può diradare le nebbie e indicare una prospettiva diversa. Nella nascita della nostra democrazia deturpata nel tempo ed a rischio, Gullo ha un posto a sé. La sua formazione marxista, influenzata dal sodalizio con Bordiga ed intrisa d’istanze illuministe e laiche, ne fece una personalità dai forti principi, l’alfiere d’un umanesimo comunista sconosciuto. Niente a che vedere col ceto politico, pur molto diverso da quello attuale. Era per tanti versi un comunista atipico. Interpretò i bisogni, le speranze, l’animo più nascosto e nobile delle masse senza scadere mai in atteggiamenti populisti. E nessun uomo politico, a parte Berlinguer, è stato amato come lui nel dopoguerra.
Si rivelò alla caduta del regime nell’incontro con Togliatti. La repressione fascista l’aveva separato da Bordiga, espulso dal partito per trotskijsmo. E, in solitudine, aveva maturato un’idea della transizione e della rivoluzione socialista in Italia collimante con l’elaborazione cui era pervenuto Togliatti, a Mosca, nella contrarietà generale: dei dirigenti comunisti, dei partiti antifascisti e dell’establishment sovietico. Era l’idea della democrazia progressiva, fatta propria da Stalin quando le sorti della guerra cominciavano a delinearsi più nettamente; una specie di terza via che implicava un netto mutamento di linea politica: il riconoscimento del governo Badoglio da parte sovietica (che offriva all’Italia una chance inattesa) e la caduta della pregiudiziale antimonarchica sancita dalla svolta di Salerno che, come ha spiegato Maurizio Valenzi, passò col contributo determinante di Gullo. Una linea incompatibile con una prospettiva di tipo insurrezionale, che contemplava scelte di governo necessariamente unitarie, graduali, intrecciate al cambiamento sociale con l’obiettivo di riguadagnare l’indipendenza nazionale e la libertà. In questo senso Togliatti, Gullo e i comunisti furono gli artefici principali del nostro secondo risorgimento.
L’abbozzo di questa linea che preludeva alla via italiana al socialismo ed al partito di massa, era stato illustrato da Togliatti, a Napoli, e dal concomitante intervento di Gullo al 1° congresso dei comunisti siciliani, a Messina. Si stava cementando tra i due uno stretto rapporto politico e personale e, sulla via del ritorno, a Catanzaro, Gullo apprese dal giornale radio che Badoglio l’aveva nominato ministro della agricoltura, accanto a Togliatti ministro senza portafoglio. Assunse il dicastero allora più importante con quello della guerra, e i suoi decreti per la terra divennero presto il fondamento della ricostruzione e della trasformazione del Paese. Dal tempo dei Gracchi non era mai successo che un ministro parteggiasse per quel mondo rurale misero, tiranneggiato e sottomesso pensando di farne la chiave di volta d’un rivolgimento generale. Nella sua Storia d’Italia Paul Ginsborg ha infatti scritto che “da ottimo avvocato qual era, Gullo presentò le sue proposte come una serie di provvedimenti contingenti di scarsa importanza. Eppure, in un momento tanto delicato per la costruzione dell’Italia futura, fu questo in realtà il solo tentativo attuato dagli esponenti governativi della sinistra di avanzare sulla via delle riforme”.
Il rinnovamento delle campagne avviava una rivoluzione democratica vera. A lui toccò di sopperire alla fame degli strati popolari, stretti dalla penuria alimentare e dal mercato nero. Lentamente prese a rinascere l’intera società e venne acclamato ministro dei contadini che stravedevano per questo protettore giunto inaspettato. Ma l’importanza delle sue leggi agrarie ne mise in ombra, paradossalmente, il pensiero politico e il ruolo di leader parlamentare e costituente: ragion per cui si può dire che neanche in vita fu conosciuto davvero, fino in fondo. Ebbe lo sguardo lungo. Restò al governo, passando infine alla giustizia, sino alla rottura dell’unità nazionale, ed anticipò sensibilità e mutamenti culturali profondi che sarebbero emersi a 20, 30 anni di distanza. Portò un’attenzione costante ai diritti dei cittadini: dai figli del peccato illegittimi, alla parità di genere, al divorzio, al diritto-dovere di resistenza. Nacque con lui la cultura dei diritti. E lasciò una traccia inconfondibile nella costruzione dello stato nuovo: dalla sovranità del parlamento che avrebbe voluto monocamerale, alla stabilità del governo e al bilanciamento dei poteri; dal rifiuto del regionalismo all’autonomia dei comuni; dall’indipendenza del’ordine giudiziario messa allora in discussione (riequilibrata però dall’elettività dei magistrati, dall’unità della giurisdizione, dal ripristino della giuria e dall’ingresso delle donne in magistratura osteggiato dalla DC), alla corte costituzionale inizialmente guardata con sospetto dai comunisti, ed affidata alla sua esclusiva mediazione.
Ma Gullo dissentiva da un aspetto cruciale della linea comunista, il dialogo coi cattolici e la ricerca di una collaborazione non occasionale, ma strategica, con la DC. Un punto a torto trascurato, che potrebbe celare la causa effettiva della sconfitta e della stessa fine del PCI, ben altrimenti della caduta del muro di Berlino che ne offrì il pretesto. Poco prima che morisse, Togliatti rispose alle sue osservazioni sfuggendo al merito e attribuendole, per comodità polemica, ad un antico riflesso anticlericale. Ma Gullo non era per nulla fazioso e, a differenza del suo amico Concetto Marchesi che si assentò, aveva votato l’articolo 7 che giudicava quanto di peggio contenesse la Costituzione, alla stregua d’un gesto di fiducia in Togliatti. Ma la crociata della Chiesa, la subalternità alla gerarchia, la natura clientelare e lo scarso senso dello Stato che connotavano la DC, lo convinsero che in ciò stesse un insormontabile ostacolo, e fosse illusorio sperare di mutarne il segno attraverso la lotta sociale e politica come pensava Togliatti. Alla fine ne scrisse, per ultimo, a Berlinguer, che stava maturando l’idea del compromesso storico: progetto di grande respiro che avrebbe potuto frenare il declino, ma che per l’appunto s’infranse nell’urto con la DC, richiusa a riccio dopo le larghe intese e l’uccisione di Moro. Berlinguer ne prese atto e cercò di rimediare una situazione che s’era fatta difficile. Ma non ebbe il tempo e s’ingenerò una crisi inarrestabile che travolse il PCI ed il Paese.
Gullo fu dunque un comunista di sinistra e un democratico coerente: a proposito del XX Congresso e del rapporto segreto, dei fatti d’Ungheria, del movimento del ’68, dell’espulsione del gruppo del Manifesto, delle battaglie civili che il partito tardava a comprendere. Scomparso Togliatti venne emarginato e subì un ostracismo plebeo con l’accusa d’essere un notabile e di tarpare le ali al partito. Disse di quel periodo Ferruccio Parri: “leggevo con interesse studi e articoli suoi recenti, deplorando che la sua intatta capacità d’intelligenza e di perspicacia non trovasse fruttuose applicazioni”. E parafrasandolo alla luce di ciò che è stato, di ciò che poteva essere e delle miserie attuali, è deplorevole che una società in così grave sofferenza si trascini aggrappata a una ripresa illusoria e non cerchi modelli più razionali ed umani riscoprendo l’integrità la passione l’intelligenza di uomini come Togliatti, Gullo e Berlinguer.
di Giuseppe Pierino, già deputato del Pci