Mani. Strette, accomodate, rilasciate. Mani che parlano e che tacciono. Mani che osservano e che raccontano. Che sono luce e che sono ombra.
Mani di artisti e di modelle, di personaggi anonimi e di collezionisti. Come la mano a cui si appoggia, nel ritratto dipinto da Moïse Kisling (1920), la testa di Janas Netter, artefice silenzioso e riservato della straordinaria raccolta d’arte protagonista incontrastata della mostra in corso a Palazzo Reale a Milano, Modigliani Soutine e gli altri artisti maledetti. La collezione Netter (fino all’8 settembre 2013). Una mostra che è esplorazione in un mondo recondito e pressoché sconosciuto, quello del sacrario delle opere d’arte riunite da questo discreto rappresentante ebreo alsaziano, innamorato degli Impressionisti ma che, per ragioni economiche, è costretto a ripiegare sugli artisti suoi contemporanei. E scopre Modigliani, e Utrillo, e Soutine, costituendo una collezione impareggiabile.
È Netter ad acquistare a decine i dipinti del maestro livornese che i membri del suo entourage giudicano «orrori». Ed anche a venderne sette esemplari ad un corrispondente argentino, perché faccia conoscere l’arte di quell’artista tanto folle quanto geniale anche oltreoceano.
E la mostra milanese trova proprio in Amedeo Modigliani e nelle sue figure enigmatiche ed allungate, stilizzate e affascinanti, nei suoi ritratti di un primitivismo romantico, la sua chiave, il suo sacro fuoco. La sala centrale, dedicata al bohemien venuto da Livorno e morto di tubercolosi a soli 36 anni, è un autentico tempio della pittura del ‘900. Con il ritratto barbuto di Zborowski (1916) e quello della musa tragica, il Ritratto di ragazza dai capelli rossi (1918), quella Jeanne Hébuterne amata dal pittore, da cui avrà un figlio e che, dopo la morte di Modigliani, si suiciderà portando in grembo il secondo figlio dell’artista.
È sempre Jeanne la Madonna seduta, con i capelli acconciati in un geometrico chignon e le mani chiuse l’una nell’altra. Sulla gonna rossa. Segue la Bambina in abito azzurro (1918), con gli occhi del medesimo colore di cielo. E le manine che si confortano a vicenda, schernendosi dallo sguardo dello spettatore, nascondendosi senza nascondersi.
E poi, la trilogia dei ritratti di donna: La bella spagnola o Madame Modot (1918) con un braccio lungo il fianco e l’altra mano innaturalmente in grembo, che mima l’espressione tediata del volto; Elvire con colletto bianco (1917), con il dittico del nero dell’abito da collegiale e la capigliatura corvina raccolta, come le mani diligentemente riunite l’una sull’altra. E infine, al margine destro della parete, la Fanciulla con abito giallo (1917): il capo lievemente reclinato, la bocca disegnata, le mani intrecciate come le traiettorie sfuggenti dello sguardo perduto nel vuoto, del taglio dell’abito, dei riquadri che compongono lo sfondo.
Ma le mani, protagoniste di questa mostra che odora di caffè di Montparnasse, di povere soffitte ingombre di tele e di tubetti di colore strizzati, ma anche dell’«Ebrezza della pace» di cui scriveva Anatole Jakovsky all’indomani del primo conflitto mondiale, sono anche quelle della Donna con maglione rosso (1917) di Moïse Kisling, il dipinto più bello e sorprendente dell’intera esposizione. Un ritratto che sembra debitore del lume di notte dei fiamminghi, con una natura morta cezanniana in primo piano e le mani della figura femminile che occhieggiano con la luce del volto, stringendo due ferri da maglia, fonte e specchio della luce che accende di bagliori la casacca purpurea e la seta corvina del capo reclinato.
Ci sono le mani nervosamente in posa del Nudo che si pettina (1916) e del Ritratto di Maria Lami (1928) di Suzanne Valadon. Suzanne la bellissima, Suzanne la desiderata e la scandalosa, Suzanne l’audace compagna di un ragazzo di 20 anni più giovane di lei, amico del figlio, Suzanne che fece innamorate tutta Parigi e che respinse Henri de Toulouse-Lautrec, il pittore rachitico che paragonò, sdegnato, la bella Marie – questo il vero nome della pittrice – a Susanna e i vecchioni. E l’impertinente artista scelse proprio quello quale suo pseudonimo.
La mostra a Palazzo Reale si apre come una veduta a volo d’uccello su tetti e strade di Parigi, sui viali e boulevard dipinti da Utrillo, in quelle geometrie infantili e calligrafiche, accese dalla grumosità del colore e da una luce assoluta, polverosa, senza ombre.
Poi, l’incalzata cubista de Le grandi Bagnanti (1908) di Andrè Derain, la pennellata nervosa e pastosa e la dialettica brutale di Maurice de Vlaminck, le nature morte sghembe e sprofondanti di Henri Heydenm, la pittura piumeggiante di Eugène Ébiche, con le mani della sua Vecchia con pollame (1930 ca.) che si decompongono nelle penne soffici della gallina, nella mescola magmatica del colore. Nell’ensoriano Uomo con maschere (1930) di Raphaël Chanterou, le mani si annullano nel volto replicante e replicato, nell’ossessione stupefatta della dissimulazione umana e sociale.
Fino al tripudio materico, fino alla vertigine cromatica e di liquefatto delirio di Chaïm Soutine, a cui la mostra dedica una sconfinata sala, in un tu per tu con il rivale Modigliani, che lo precede.
In Soutine le mani diventano macchie aggrovigliate, forme tormentose, accumuli di colore e di pennellate; mani come forme informi. Come in La pazza (1919 ca.) con la nevrosi che si disegna nelle dita contorte e nella posa precaria; come nel ritratto di Giovane donna (1915 ca.) con il sorriso inquietante e le mani che si scompongono; o le mani allungate in un caleidoscopio deformante della Donna in verde (1919 ca.). Mani come energia trattenuta che esplode, come l’espressività sopita di dolori atavici e di tormenti dilanianti, di frenesie e di passioni senza pace, nascosti dietro la facciata borghese di un perbenismo ben vestito.
Alla fine dell’esposizione, come un sigillo criptico e onnipresente, torna Modigliani con le mani disperatamente intrecciate della Giovane donna seduta con camicia (1919), con il non finito della blusa azzurra e la ciocca impertinente di capelli che cala sul volto ovoidale. E quella natura morta di dita e dorsi che si legano indissolubilmente, come in un’amigdala primitiva che parla di una vita consumata troppo presto e di un genio infinito pronto a rigenerarsi in una circolarità perenne di desideri e di emozioni. Che parla di una femminilità discreta, di una procacità riscritta in eleganza, nell’umanesimo di una bellezza ricomposta. Che vibra in quei palmi giunti, sacrale omaggio ad una religiosità dell’estetica e dell’essenzialità. Che tutto dice e tutto tace. Solo in quelle mani.
di Isabella Pascucci