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Il mastro capitano dei mari incontra la ceramica. Una grande mostra multietnica celebra i 500 anni dalla morte del cartografo turco Piri Reis

Il giro del mondo in cinquecento anni. Ascoltando lo sciabordio dei remi nell’acqua, orientandosi con la luce della luna, seguendo antiche rotte dei mari. Nel paese dei santi e dei navigatori, la Turchia rende omaggio al suo più grande marinaio e geografo, il leggendario Piri Reis, proprio nell’anno che l’Unesco ha istituito come celebrativo dei 500 anni dalla morte del famoso cartografo del XVI secolo, autore della grandiosa Mappa del Mondo.

E il mondo intero è nell’evento espositivo, multiculturale e poliedrico, Piri Reis and 1513 World Map, ideato dal Gruppo Kale, leader nel settore delle ceramiche e dei materiali edili, e con cui è stato inaugurato il neonato Centro Culturale Turco Yunus Emre, nel cuore della Capitale.

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La mostra, infatti, rappresenta un’esperienza esemplare di incontro tra culture differenti e di reinterpretazione delle culture altre. Dopo una lunga ricerca sulle carte geografiche di Piri Reis, tredici artisti internazionali hanno elaborato i propri progetti creativi, realizzati in un unico laboratorio ceramico appositamente allestito a Canakkale, la località in cui Piri Reis ha elaborato la sua modernissima carta delle terre conosciute. Poi, un simposio collettivo di quindici giorni, un’Accademia artistica in cui sono nate le opere ora esposte a Roma.

E aggirarsi per le sale affrescate di Palazzo Lancellotti, ammirando queste creazioni, è un po’ come veleggiare sui mari, di porto in porto, con la brezza tra i capelli e le vele di tela che si gonfiano panciute di vento.

Sentinella silenziosa di questa navigazione è la fata dell’artista greco Kostas Karakitsos, che accoglie i visitatori con lo slancio silenzioso del profilo, il cono discreto del cappello e la trama di rose dei venti sull’abito, musa inquietante di un viaggio mai terminato. Lei che regge in un palmo di mano il globo terracqueo e che occhieggia con i trulli-collina di Sevim Çizer, la scultrice turca che modella la ceramica come fosse lana, dando alle pietre la morbidezza di dune che scolorano in lontananza. Il dialogo è fatto di contrasti. Con le forme aperte e ritorte verso se stesse dell’italiano Ivo Sassi, delle sue silhouette che esplodono di un’energia trattenuta, che si sfaccettano monumentali in una foresta di simboli occulti, di onde stilizzate, di porte spalancate sul dio oceano, domato dall’uomo vincitore, dal cartografo scienziato.

Ayşegül Şahin chiude il mondo in una scatola, sposando tradizione ed antitradizione. I suoi mappamondi cubici sono mazzi di carte ritagliate come origami, come nel gioco delle ombre cinesi, in cui nulla è come appare, in cui ogni verità ne svela un’altra. Basta saperla cercare. Ma la verità è anche quella di una storia signora, di vasellame dalle forme classiche, fregiato di antiche triremi e di sagome apotropaiche. In questa sinfonia di mondi, anche i materiali virano l’uno nell’altro, come le acque del Mediterraneo che sfociano fino all’Atlantico. Il turco Ismail Yardimci conferisce ai suoi dischi in tecnica Sagar la consistenza del marmo, un marmo che si disfa e si metamorfosizza, come in una sommessa sinfonia in cui i cinque continenti intonano la propria lirica, diretti dal cerchio del mondo, al centro del quale la nave-bussola regola i destini dell’universo conosciuto.

Nell’alveo della tradizione, le opere di Mustafa Tunçalp ripercorrono i meridiani e i paralleli delle carte nautiche, fondendo le memorie di galeoni e marinai Ottomani. Fino a dare un volto anche a Piri Reis, inturbantato profilo nel cui copricapo si cela un minuscolo ed emblematico mappamondo.

Le sirene ammaliatrici e le piovre avvolgenti dell’americano Charles Wissinger, nei suoi vasi di raro fascino arcaizzante, fanno da contraltare al naturalismo surreale di Engin Çetin, con i suoi piatti-mappe che accolgono la stilizzazione di un feto, simbolica allusione alla ricerca di un nuovo mondo. Come nuova è la versione futurista delle ceramiche dello spagnolo Xavier Monsalvatje che traduce le carte dell’umanista e saggio cartografo in un’allitterazione di civiltà industriali, in una Metropolis di ciminiere e di fari turriti, in una babele di voci e di drammi contemporanei, affacciati su di un mare svuotato della sua dignità, atterrito di fronte alla cecità inquinante di quel castello haringiano, che strizza l’occhio sulla fine che una civiltà si sta infliggendo.

Di straordinario impatto emotivo anche la selva di alberi di Serap Erdoğan, come meteore greche sulla cui sommità non sta alcun monastero, ma lungo i cui crinali scoscesi franano i velieri di un viaggio oltre l’orizzonte del visibile, mentre i canopi tubolari dell’egiziano Ossama Emam sorridono di colori marini, di grumosità di sabbia, e delle murature di antichi porti. A cui si arriva e da cui si riparte.

Oggi come cinquecento anni fa.

di Isabella Pascucci

La mostra presso il Centro Culturale Turco Yunus Emre (Roma, via Lancellotti 18) resta aperta fino al 21 dicembre (orario di visita 9-16, ingresso libero).

Scritto da Redazione

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