Una gru fa da ponte tra due finestre, in un cortile di New York, microcosmo dell’esistenza e del ventaglio di declinazioni in cui può tradursi quell’esistenza attraverso rapporti, abbandoni, solitudini e passioni.
Un uomo panciuto e dalle labbra tumide osserva tutto a distanza. Quel cortile è la sua creatura, quei rapporti e quelle relazioni il secondo livello della storia che sta raccontando. L’uomo è Alfred Hitchcock. E il ventre di quel palazzo di città è il set di uno dei suoi capolavori, La Finestra sul cortile (1954).
La mostra Alfred Hitchcock nei film della Universal Pictures, in corso a Palazzo Reale a Milano, fino al 22 settembre, non è una semplice antologia della produzione dell’incontrastato maestro del brivido di tutti i tempi, non è la mera biografia per immagini di una carriera straordinaria. È la ricostruzione emotivamente coinvolgente di un universo e dell’elaborazione di quell’universo di millimetriche simmetrie, in realtà paradossali che diventano possibili e quasi inevitabili, di personaggi che si trasformano in icone, di paure che si materializzano in fobie.
Del resto, lo stesso Hitchcock notava che «Il mistery è mistificatorio. Ha a che fare con la ragione. La suspense ha a che fare con le emozioni». E l’esposizione è un’infilata di emozioni, di sala in sala, una sequenza di zoom su ciascun film di successo, un vortice in cui addentrarsi e da cui lasciarsi travolgere, proprio come nel meccanismo avvolgente di Vertigo (1958), la pellicola capolavoro distribuita in Italia con il titolo esplicativo La donna che visse due volte. Che è un po’ una rivelazione e un po’ una sopravvivenza dell’enigma che sottende tutta la storia. Kim Novak, di una bellezza e di un fascino statuari in questo ruolo, parlò di Vertigo come della sua più importante esperienza cinematografica, ricordando il disagio di dover indossare abiti di scena seriosi e sui colori del nero. Ben presto l’attrice comprese, infatti, che quel disagio faceva parte del suo personaggio, che era funzionale alla sua interpretazione e volontariamente indotto da ‘Hitch’ per sviluppare in lei l’indole intrinseca al suo personaggio tanto mistificante quanto misterioso. E, quindi, a disagio con se stesso e con gli altri.
La Novak, negò anche qualsiasi pressione psicologica da parte del grande regista, assolvendolo. Cosa che non fecero, invece, altre muse di Hitchcock, lamentando una vessazione psicologica da parte del regista. Come quella Tippi Hedren, modella per mestiere e attrice per scelta. Di Hitchcock che la volle prepotentemente per il ruolo di protagonista, la scontrosa Melania Daniels, ne Gli Uccelli (1963). Ricorderà le lividure durante le riprese a causa dell’impiego di volatili addestrati che, non sempre, però, facevano il proprio dovere.
Il film si avvale di 370 trucchi di ripresa su 1400 inquadrature, e di tre anni di preparativi per la realizzazione finale. Un antenato dei film con effetti speciali, una storia raccontata senza colonna sonora, montando ed elaborando unicamente i versi striduli degli uccelli, come garrule stilettate che arrivano dal cielo e feriscono a morte.
Il bianco e nero delle foto di scena dei film si squaderna sulle pareti insieme ai manifesti, ai memorabilia, alle citazioni. Con le colonne sonore che cadenzano le emozioni, le scene mozzafiato e i cannocchiali claustrofobici di angosce improvvise.
Perché, nel cinema di Hitchcock quanto più la situazione è normale tanto più è destinata a diventare terribile. Come succede alla ladra improvvisata di Psycho o allo sfortunato fotografo Jeffries, con la sua gamba rotta, che spia i vicini come fosse un passatempo. E scopre un omicidio.
La sala dedicata a La Finestra sul Cortile disegna proprio le traiettorie invisibili che sottendono la storia, gli intrecci nell’intreccio che confermano, come molti critici hanno riconosciuto (non lesinando l’attribuzione ad Hitchcock di una qualche morbosità sessuale) di come nei suoi film il cineasta abbia indagato tutte le possibili sfaccettature della psicopatologia sessuale umana. Perché a fare da corollario alla coppia bella e impossibile di James Stewart e della divina Grace Kelly, il ghiaccio bollente secondo l’efficace definizione dello stesso regista, si susseguono tante maschere, tratteggiate dalle limpide istantanee didascalizzate, esposte in mostra. C’è la a coppia di mezza età, esagitata e senza figli, tra insofferenze e frenesie; la zitella matura, Lonely heart, a caccia di un amore da romanzo, ma che incappa solo in squallide tresche. I coniugi in luna di miele, che sprofonderanno presto nella noia. La ballerina avvenente e corteggiatissima che fa strage di uomini. Tutto il campionario delle tipologie di amore e di relazione.
E, poi, c’è il musicista solitario, che compone la sua canzone, tema dell’intero film. E a cui fa visita un pingue amico, intento a sistemare le lancette dell’orologio sul camino. Un amico che ha tutta l’aria di essere Hitchcock in persona. Eccolo, un altro degli arguti cammei del regista, nota caratteristica e, ben presto, firma dei suoi film. Dall’apparizione funzionale a riempire un vuoto dell’inquadratura ne Il pensionante, la comparsa fugace in scena si trasforma in gag e si ammanta di superstizione. Hitchcock che transita con la custodia di un corno in Vertigo, che fa capolino in una fotografia ne Il delitto perfetto, che siede con una bimba sulle ginocchia nella hall d’albergo in Topaz. Un misto di arguzia e scaramanzia. Del resto lo stesso regista affermava che, nell’ordine, le cose che più temeva erano i bambini, i poliziotti, i luoghi alti e il pensiero che il suo ultimo film non fosse all’altezza del precedente. La paura del vuoto fu sdrammatizzata in Vertigo, con il protagonista affetto da acrofobia. Meno scampo ebbe Hitchcock con l’ultima paura, quando tanta critica questionò sul fatto che sia stato Marnie (1964), interpretato da Sean Connery e Tippi Hedren (anche se Hitchcock avrebbe voluto Grace Kelly) l’ultimo film del maestro ad aver lasciato un segno. Laddove Complotto di famiglia, l’ultima pellicola girata dal regista, la 53esima della sua carriera, quando era già gravemente malato, fu definito dal New York Times «Il film più allegro di Hitchcock», per quell’ironia in cui sangue ed omicidi si stemperano in una furbesca costruzione di coincidenze e di personaggi sopra le righe. Un flop della suspense, insomma.
Di infinita suggestione anche la sala dedicata al film di Hitchcock per eccellenza, il thriller dei thriller, che tanto ha insegnato ai giallisti della generazione successiva: Psycho (1960). Sulle pareti corrono le immagini della villa spettrale alle spalle del motel Bates, le foto di scena con il regista che chiacchiera amabilmente in compagnia di Janet Leigh, la Marion Crane protagonista che, simbolicamente, indossa una sottoveste bianca al principio del film, consumando un clandestino rapporto sessuale con il suo compagno, e poi biancheria intima nera, laddove a vederla come oggetto del desiderio e, quindi, come vittima predestinata e prescelta della sua sessualità deviata e punitiva è lo psicopatico Norman Bates, interpretato da un inarrivabile Antony Perkins.
Girato come un telefilm, in regime di low budget, con Hitchcock che rinunciò al proprio compenso in cambio del 60% della proprietà del film, in Psycho la scena madre dell’accoltellamento nella doccia richiese sette giorni di riprese per 45 secondi di sequenza. Un autentico capolavoro geometrico, come osserva Gianni Canova che, con le sue note critiche in video accompagna passo passo il visitatore. Sì, un film suddiviso in due parti perfettamente separate, in cui, assoluta rarità, la protagonista scompare a metà della storia, sostituita dalla sorella che intraprende le ricerche. Un film che dal bianco di un’assolata mattinata colta a volo d’uccello sulla città di Phoenix, con un furto tanto maldestro quanto non programmato ed un viaggio ingoffito dalla stanchezza e dall’indecisione, muta colore nella seconda parte, trasformandosi nel nero intenso dell’orrore, di quell’omicidio consumato in fretta, a cui lo spettatore crede per forza, sebbene la lama del coltello resti sempre pulita e non rechi mai evidenti tracce sangue, anche se la finzione è sotto gli occhi di tutti. Ma tutti la credono reale. È la grandezza della suspense e del senso dell’orrore, con gli spettatori che al cinema schizzavano sulla sedia, con la paura che diventava coprotagonista: «Noi che guardiamo siamo tutti criminali – ci dice Hitchcock – siamo dei guardoni e seguiamo l’undicesimo comandamento:’Non farti scoprire’».
Quanta attualità in un’affermazione del genere, supportata oggi dal turismo dell’orrore e dalla cronaca nera e di sangue, signora assoluta su quotidiani e canali Tv.
Ma quello che la mostra racconta è anche l’Hitchcock inedito, il regista al lavoro e il marito e padre, spesso colto dall’obiettivo al fianco della moglie Alma che fu fida ispiratrice e consigliera di molte delle trovate dei suoi film. Non ultima, per restare in tema, le ciglia che battono per l’ultima volta, nella scena di Psycho, con la vittima crollata sul pavimento e l’occhio ancora aperto inquadrato in primo piano.
In mostra, però, si avverte la mancanza di una nota narrativa ed iconografica dedicata ad un altro mostro sacro del cinema, Rebecca la prima moglie (1940), vincitore di due premi Oscar, ma anche a Caccia al ladro (1955) ed Intrigo internazionale (1959).
Merita un elogio, invece, la sezione dedicata ai soundtrack firmati da Bernard Hermann, parte integrante del successo della cinematografia hitchcockiana.
In Io ti salverò (1945), altro film ignorato dalla mostra, un Gregory Peck vittima di amnesia viene psicanalizzato da Ingrid Bergman. La rivelazione della storia arriva nel sonno, quando John Ballantine rammenta il proprio passato recente attraverso il simbolismo di un sogno, che nel film viene ricostruito attraverso le spettacolari scenografie disegnate per l’occasione da Salvador Dalì.
La mostra di Milano è un po’ come il viaggio dentro quel sogno, un cammino attraverso le ossessioni umanissime e la normalità geniali di un uomo, nel suo universo e nella sua arte che seppe generare altre ossessioni, sconfinate paure e oscure attrazioni, sensazionalismi e silenzi inconsci. È un cammino lungo una strada buia illuminata dai fari di un’auto in fuga o da un flash nella notte. E alla fine di quel sogno, c’è un viso dalle guance rotonde e cadenti, le borse sotto gli occhi piccoli e pungenti e una voce chioccia che pronuncia, trascinando le lettere una ad una: «Buonasera».
Alfred Hitchcock nei film della Universal Pictures
Milano, Palazzo Reale
dal 21 giugno al 22 settembre 2013
di Isabella Pascucci