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1. Edvard Munch, Vampiro II, 1895, Munch Museum, Oslo, © Museo Munch / Munch Ellingsen Group / BONO 2013. Photo: © Munch Museum

Ad Oslo una grande mostra per il 150° di Edvard Munch

Si stringono l’uno nell’altra. Si abbracciano per dirsi è finita. O per dirsi: eccomi, sono qui? È rifugio. O assassinio? È un inizio. O una fine? Un incontro. O un addio?

 

Si stringono, con quei volti di cera, come maschere funebri liquefatte dal fuoco, come sembianze tumefatte dalla putrefazione; con quei corpi fluidi e densi che sfuggono alla presa. Che si decompongono e si amalgamano l’uno nell’altro.

Si intitola Vampiro II ed Edvard Munch (1863-1944) lo dipinse nel 1896, elaborando un soggetto che sarebbe stato ripreso varie volte e che, come molti altri, avrebbe rielaborato e riattraversato in più versioni, con sfumature e timbri differenti, nell’arco di tre decenni.

È uno dei dipinti più intensi e sconvolgenti di Munch 150, la grandiosa mostra evento in corso ad Oslo e in altre città della Norvegia, e che si concluderà tra un mese, il 13 ottobre. La grandiosa esposizione, ospitata in numerose sedi, costituisce la presentazione più articolata e completa dell’opera di questo straordinario artista, di cui nel 2013 si celebra il 150° anniversario della nascita: oltre al Nasjonalmuseet e al Munchmuseet, che ospitano le due parti più sostanziose della colossale esposizione, il viaggio nella vastissima produzione pittorica ed artistica di Munch passa per l’Aula Magna dell’Università di Oslo, dove l’artista eseguì alcuni dipinti monumentali; per la sala mensa della fabbrica di cioccolato Freia, in cui Munch eseguì 22 dipinti decorativi, a partire dal 1922; per Skøyen, alla periferia di Oslo, dove si trova la proprietà Ekely, che Munch trasformò da vivaio in atelier. Ma anche attraverso una serie incessante di eventi in tutta la Norvegia.

Nel dipinto Vampiro II, nella scabrosità santificata di quell’abbraccio senza un inizio e senza una fine, Munch colloca una delle tappe del suo sublime Fregio della Vita, la sua tela di Penelope, l’opera a cui lavorò indefessamente per buona parte dell’esistenza e che, nel 1918, in occasione di una mostra a Blomqvist, lo stesso artista descrisse – stringatamente e apoditticamente – così: «Il Fregio è inteso come una sequenza di dipinti decorativi che, insieme, rappresentano un’immagine di vita. La sinuosa linea della costa li attraversa tutti, al di là di essa vi è l’oceano, in perenne movimento, e sotto le linee degli alberi si snoda la vita multiforme, con le sue gioie e i suoi dolori».

Una sequenza di 22 dipinti, per la precisione, che le mostre alla Galleria Nazionale e al Museo Munch di Oslo restituiscono, in una ricostruzione che ha del miracoloso e del sorprendente. Il, anzi i Fregi della Vita di Munch rivivono a 150 anni dalla sua nascita. Ed è emozione allo stato puro.

A chiarire quale fosse il progetto complessivo dell’artista è una fotografia del 1903, che mostra l’allestimento scelto da Munch per la versione del Fregio del 1902, esposto alla Secessione di Berlino. I dipinti si stagliano lungo la parte alta delle pareti di un unico ambiente, emergenti da una struttura bianca, in tela, un ininterrotto passepartout che incornicia capolavori. E tra quelle tele, come un colpo al cuore, che si assopisce nella vertigine avvolgente e risucchiante di una sinfonia di onde di passione e di angoscia, anche L’Urlo. L’Urlo il capolavoro. L’Urlo il dipinto simbolo. L’Urlo la tela inestimabile rubata e ritrovata.

L’Urlo, semplicemente una delle tappe del Fregio della vita, sembrano risponderci, invece, le esposizioni oslesi. E Munch non solo il pittore dell’Urlo.

Come osserva anche Nils Ohlsen, curatore del Nasjonalmuseet: «La figura dell’Urlo non ha sesso, potrebbe essere un uomo o una donna, un adulto o un bambino. E Munch non ce lo dice volontariamente. Perché in essa c’è l’umanità intera».

È l’umanità giunta al culmine di quella via crucis che Munch dipinse e ridipinse, è la disperazione che si fa voce in un attimo, come avviene nella vita di ciascun individuo. È solo una parte di un insieme, di un diagramma di flusso, la cresta di un onda che spumeggia e sprofonda di nuovo nell’abisso. Quell’oceano è il mare dell’amore tra uomo e donna. Non semplicemente la vita, come il titolo del ciclo potrebbe far credere, ma i cronotipi dell’Amore, come le stazioni del calvario cristiano, in un dentro e fuori fatto di ambienti aperti e chiusi, in cui vengono trasfigurati l’accoglienza e, di contro, il ripiegamento dei sentimenti su se stessi.

Prima la notte stellata. Il silenzio rotto dal Bianco e rosso di due donne sulla sponda del lago. La magia dell’incontro Occhi negli occhi. E l’esplosione del Bacio, tema a cui la Galleria Nazionale dedica un’intera sala: fu una delle figure che Munch tradusse più spesso in litografia, e sempre con uno spiccato desiderio di sperimentazione.

E dopo il contatto fisico, la donna diventa Madonna. Nessuna velatura cristiana in un’altra delle figure più celebri dell’immaginario munchiano, la bellissima sirena aureolata e a seni scoperti che è Madonna in senso stilnovistico ed estetico, solo ed unicamente per l’uomo innamorato.

Passo dopo passo, la mostra Munch 150 sembra abbassare le luci, spegnere il sonoro, e lo spettatore procede in quel viaggio che è il viaggio di tutti e di nessuno, riconoscendovi solo se stesso. I propri dolori. Quell’innamoramento. Quella passione. E poi, l’incantesimo che si spezza. La caduta degli dei.

Gli interni diventano alcova dell’inganno, delle gelosie e degli intrighi, come racconta, in un allestimento seducente, anche la mostra al Museo Munch: una carta da parati vintage, verde foglia, che prosegue, fuori dal quadro; gli interni borghesi in cui fermenta il sospetto, in cui la gelosia si fa solitudine, il desiderio genera la follia omicida, in cui l’odio si esplicita universalmente e simbolicamente ne La morte di Marat. Una macchia di sangue sulle lenzuola candide di un letto.

È lo stesso rosso di Separazione, quando la figura bruna dell’uomo solleva una mano purpurea, Come stringesse il suo cuore che gocciala sangue. E alle sue spalle un fantasma di donna si dissolve, in lingue di luce. L’uomo si raggomitola in una Malinconia che dialoga con la solitudine del paesaggio. L’Eden si è trasformato in deserto.

Il Fregio prosegue inesorabile: i volti si fanno maschere ensoriane. Facce allampanate e dagli occhi sbarrati: ai cronotipi dell’Amore succedono quelli dell’Angoscia. La facciata benestante di una Kristiania di fine Ottocento, delle passeggiate lungo il Karl Johans Gate, della rispettabilità di cilindri e colletti inamidati cela malamente l’aberrazione del dolore. Tutti come Cristi in croce, tutti come creature sottoposte ad una metamorfosi ovidiana che non lascia scampo: strade e ponti si appiattiscono, uniformati dal medesimo cielo di onde e di cloisonné di brace. Lo stesso de L’Urlo, con quelle traiettorie sfuggenti che annullano e inghiottono inesorabilmente in gorghi il tentativo, flebile, di Munch di tratteggiare sullo sfondo un brano dell’Oslofjord e di barche all’orizzonte.

E, a partire dal 1902, il pittore concluse la serie con i cronotipi della Morte, interni di camere da letto che odorano di corpi senza vita, memori della scomparsa della madre ma, ancor più, della sorella del pittore. È il dramma della perdita che si rinnova, ciclicamente, impietosamente. La perdita di un amore che è come la morte. Che è la morte.

Del resto, la perdita della sorella maggiore Sofie aveva ispirato il primo capolavoro del giovane Edvard, La bambina malata (1885-1886), il dipinto dello scandalo e insieme della consacrazione, esposto alla Mostra Collettiva Autunnale del 1887, con quell’effetto di schizzo, di opera provvisoria, di non finito, con quei colori che si sfaldano e si disfano, come molecole di ossigeno nell’ultimo respiro di una vita.

Ma Munch non è solo il Fregio, come non è solo L’Urlo. È anche la gioia radiosa e iridescente delle signorine in bianco sul pontile o lungo le strade festose di Åsgårdstrand. È il cielo stellato di notti pastose, con striature di luce che diventano indaco e lilla. È la monumentalità di ritratti colossali, disposti come corazzieri sulle pareti di una piccola sala, al Munch Museum, come ritratti di Velazquez in cui i colori iniziano a disgregarsi. È la poesia dei disegni a matita e pastello per il Fregio. È l’ossessivo ripetersi di quella provetta di vetro sul mare, riflesso deformato del sole sull’acqua al tramonto.

È un universo di verità svelate e insieme inspiegabili. È l’universo di un uomo che è arte del suo tempo e di tante epoche a venire, fuori dal tempo e dentro ad ogni uomo. È un universo del prima e del poi in cui colori e linee si mescolano come sangue nelle vene. Un universo che Munch 150 racconta senza erudizione, senza frasi fatte. Senza proposizioni che mettano un punto. Ogni sala è un viaggio senza destinazione, fatto di coordinate e di rotte, ma da percorrere in sensi diversi.

Baci e paesaggi. Giorni e notti. Donne e uomini che si scambiano sguardi ed attese. Lune che sgocciolano come i volti, appesi all’incertezza della propria identità e del proprio destino di esseri angosciati, fagocitati dalla disperazione.

La salvezza è solo nella vita che torna. In un paradiso perduto che rinasca in un barlume di luce. In una falce di luna. In un volto di donna. In un abbraccio nella foresta. Che è inizio o fine? Che è rifugio o assassinio? Che è un incontro o un addio? Non lo sapremo mai.

Ma sappiamo che è vita. Sappiamo che è Munch.

di Isabella Pascucci

Scritto da Redazione

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