Giorgio Matteucci è direttore dell’Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo (Isafom) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Al centro della sua attività di ricerca ci sono il ciclo del carbonio degli ecosistemi forestali, il monitoraggio delle foreste, la ricerca ecologica a lungo termine, il clima e l’impatto dei cambiamenti climatici sulle foreste, la gestione sostenibile delle foreste.
di Francesco Madrigrano
Si fa un gran parlare di questi tempi dei “cambiamenti climatici”. Il tema non è solo presente nel dibattito scientifico ma coinvolge gli Stati e le loro scelte di politica economica ed industriale. In sintesi, cosa si intende, sul piano scientifico, per “cambiamento climatico”?
Per cambiamento climatico si intende la variazione del clima dovuta direttamente o indirettamente alle attività umane e che si somma alla variabilità climatica naturale di un determinato periodo. Il cambiamento si misura come variazione soprattutto della temperatura (il “riscaldamento globale”), ma variano anche altre grandezze, come la precipitazione. Tecnicamente, le variazioni si calcolano rispetto ad un periodo di almeno 30 anni. Il periodo che il Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) ha preso come riferimento è quello tra il 1961 ed il 1990. La quasi totalità della comunità scientifica (95%) ha seguito di studi e valutazione è ormai d’accordo che il cambiamento climatico sia causato per il 90% e più dalle emissioni di gas ad effetto serra, soprattutto anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e Protossido di Azoto (N2O) dovute alle attività dell’uomo: uso dei combustibili fossili per produrre energia e muoversi, produzione ed utilizzo di cemento, deforestazione, attività agricole, allevamento.
Nella storia del pianeta terra ci sono stati certamente grandi cambiamenti nel clima. Si parla addirittura di “rivoluzioni climatiche”. Ma è stato misurato l’impatto delle attività umane sul clima negli ultimi decenni, a partire dalla rivoluzione industriale?
E’ vero che il clima è qualcosa che varia e che ci sono stati forti cambiamenti nel passato sia “umano” (ultimi 10-12’000 anni), sia per i cicli glaciali e interglaciali. Però, non c’è mai stato un cambiamento così veloce come quello degli ultimi 150-170 anni, che ha avuto una ulteriore e significativa accelerazione negli ultimi 20-30 anni. Inoltre, le temperature medie di questi ultimi anni non si sono mai viste sul pianeta, almeno nell’ultimo milione di anni. La “novità” è che è stato determinato con sufficiente certezza che l’uomo con le sue attività ha avuto e ha un ruolo sul cambiamento climatico, con maggiore impatto e rilevanza a partire dalla rivoluzione industriale. Le misurazioni disponibili e i modelli climatici, nei quali sono state inserite sia le variabili naturali che quelle determinate dall’uomo, hanno potuto determinare che senza queste ultime non si riesce a misurare il cambiamento climatico avvenuto. Diciassette dei venti anni più caldi rilevati da quando esistono le misure dirette di temperatura (partite intorno al 1800) si sono verificati dopo il 2000, e altri due di questi tra 1990 e 2000.
Negli ultimi anni, anche paesi come l’Italia hanno visto il manifestarsi di eventi estremi, trombe d’aria ed anche tempeste, quasi simili a uragani. Sono il segno di un “passaggio” da un clima ad un altro? E quali sono le aree che rischiano di più?
Gli eventi estremi ci sono sempre stati. Le simulazioni dei climatologi prevedono che essi possano intensificarsi nel futuro anche se la probabilità che questo si verifichi non è “robusta” come quella del riscaldamento climatico. Però gli eventi estremi sono tanto più violenti quanto più è alta l’energia accumulata dal sistema climatico. Ad esempio, le piogge torrenziali che si verificano ad inizio autunno sono “alimentate” dalla temperatura del Mediterraneo che, negli ultimi anni, a fine estate è sempre più alta. Il cambiamento climatico determina una maggiore energia in gioco, per cui aumenta sicuramente gli estremi climatici (esempio ondate di calore in estate, concentrazione delle precipitazioni in meno eventi più intensi). Le aree a maggior rischio sono quelle costiere, quelle in cui sono presenti già fenomeni di dissesto idrogeologico, le aree a minor precipitazione, dove, in alcuni casi, può esserci il rischio desertificazione.
In generale, c’è una correlazione tra deforestazione e cambiamenti climatici?
Sicuramente. Per diverse ragioni. Una diretta, perché la deforestazione contribuisce, da sola, al 20-25% delle emissioni di gas serra dovute alle attività umane. Le foreste contengono molto carbonio (circa il 50% della loro massa secca è carbonio) e quando vengono distrutte, spesso per incendio, a volte per disboscamento per finalità agricole/allevamento o di piantagioni (es. palma da olio, soia), emettono immediatamente questo carbonio in atmosfera, oltre a perdere molto del carbonio presente nel suolo (che, a livello globale, ne contiene di più di quello presente nella materia vegetale). L’altra indiretta, perché meno foreste vuol dire meno servizi ecosistemici forniti dalle foreste stesse, tra cui quello della regolazione climatica a scala locale, ma anche regionale e, per certi versi, globale. Meno foreste, inoltre, vuol dire meno capacità di assorbire carbonio con la fotosintesi, con la conseguente riduzione del contributo che le foreste danno a limitare l’incremento della concentrazione di CO2 in atmosfera.
Giriamo la domanda. Come si potrebbero mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici intervenendo sulle foreste?
Partiamo proprio dall’ultimo punto della precedente domanda: già oggi, ogni anno, le foreste globali assorbono tra il 25 ed il 30% delle emissioni di CO2 in atmosfera causate dall’uomo. Anidride carbonica che finisce stoccata nel legno e nei suoli, invece di finire in atmosfera ad aumentare l’effetto serra. Questo ruolo di mitigazione deve essere preservato e aumentato. Possiamo mettere in campo diverse strategie: una strategia di gestione, migliorando e rendendo più sostenibili le attività di gestione forestale; una strategia di espansione delle foreste esistenti, con nuove piantagioni di alberi in terreni deforestati (riforestazione) o, ove disponibili, mai forestati (afforestazione); una strategia di conservazione, con azioni contro gli incendi forestali e la deforestazione e la protezione delle foreste vergini (o quasi) ora esistenti; una strategia di uso dei prodotti forestali, rinnovabili, per sostituire materiali da costruzione più energivori e generatori di emissioni quali il cemento o l’acciaio o per sostituire combustibili fossili nel riscaldamento e la produzione di energia (con un occhio però alla efficienza e alle emissioni di polveri) o utilizzandoli per bioprodotti (fibre, chimica verde, bioplastiche, tessuti). Alcuni parlano, a ragion veduta, di transizione anche alle “biocittà”, con infrastrutture verdi piuttosto che grigie e un ruolo importante per il verde e le foreste urbane.
Quali potrebbero essere i rischi per gli anni a venire?
Il rischio maggiore è quello di non fare nulla per limitare il cambiamento climatico. L’IPCC e praticamente tutta la comunità scientifica mondiale ci dicono che dobbiamo limitare il riscaldamento a + 1.5 °C rispetto al passato (in ogni caso al massimo comunque non più di 2 °C). Per far questo abbiamo 15-20 anni di tempo per ridurre drasticamente le nostre emissioni, con l’obiettivo di arrivare almeno ad un bilanciamento di emissioni e assorbimenti nel 2050. Oltre questi limiti il cambiamento climatico diventerebbe drastico con problemi di governabilità del sistema, desertificazione, migrazioni. E non pensiamo che questo riguardi altri. Riguarda tutti in generale, ma riguarda anche l’Italia. Siamo al centro del Mediterraneo, con il riscaldamento climatico potremmo avvicinarci al clima nord africano con tutte le conseguenze del caso. L’impatto sarebbe forte su tutto, le attività umane, ma non solo: ecosistemi e biodiversità sarebbero fortemente a rischio con grossi impatti negativi. Bisogna agire, senza indugi. Ci vuole molta più volontà e azione politica, da subito e di pianificazione per il futuro, puntando alla mitigazione (riduzione e azzeramento delle emissioni) ma anche alle necessarie azioni per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Infatti, il cambiamento climatico già c’è e ce ne sarà ancora, perché il clima è un sistema con forte inerzia, oltre a ridurlo e cercare di fermarlo, dobbiamo mettere in campo politiche di adattamento. E’ per questo che oggi sarò e saremo in piazza per lo “sciopero globale per il futuro”. Lo dobbiamo ai nostri figli.