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Chi ha suicidato il PD

L’esito delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio e le vicende parlamentari successive legate alla formazione di un nuovo governo e alla scelta del presidente della Repubblica, hanno mostrato il dissolvimento di un partito, quello democratico.

 

Una scomparsa le cui responsabilità non vanno individuate “negli italiani che non ci hanno capito”, nei sistemi elettorali (che anzi hanno premiato il Pd), negli avversari antichi (il redivivo Silvio) o in quelli inattesi (il M5S di Beppe Grillo). Vanno invece cercate tutte dentro il partito che doveva unire ex comunisti ed ex democristiani, tanto all’interno che Alessandro Gilioli non ha dubbi nel descrivere Chi ha suicidato il Pd (Imprimatur editore, Reggio Emilia, 2013, con postfazione di Pippo Civati). Il titolo di questo appuntito pamphlet non lascia dubbi: non c’è nessun punto interrogativo nel passare in rassegna il dream team della catastrofe. Sono loro i responsabili della scomparsa di quello che doveva essere il più grande partito italiano. Si chiamano: Bersani, Bindi, D’Alema, Finocchiaro, Fioroni, Franceschini, Letta, Lusi, Marini e Veltroni.

Gilioli è responsabile del sito internet de l’Espresso ed è autore di un blog molto seguito dove si occupa spesso di politica e non manca di soffermarsi sulle vicende del Pd. Non lo catalogherei però tra gli esperti dei fatti interni ai democratici. Eppure nel suo libretto mostra un’osservazione puntuale e prolungata di pensieri e parole, opere e omissioni dei leader democratici. Virtù nascoste di un giornalista appassionato o attuale spirito del tempo? Come lo stesso Gilioli fa notare in un gustosissimo ritratto di D’Alema (“L’intelligenza e la stupidità”), viviamo nell’era della trasparenza, della Rete, della disintermediazione, dei big data, dello streaming, dell’economia della reputazione, della web reputation: un’era nella quale attingiamo continuamente a una memoria collettiva pervasiva e inesauribile. Un’era nella quale un politico non può più praticare il calcolo, la convenienza, l’astuzia, l’opportunismo, la furberia, il trucco, la doppiezza e sperare di non essere più chiamato a rispondere di ciò che è stato. Oggi il politico deve lottare quotidianamente non solo per affermare una posizione (di destra, di centro, di sinistra) ma soprattutto per conquistare, confermare, non perdere credibilità. Purtroppo l’establishment democratico da decenni in auge, arroccato e autoreferenziale (“Cosa vuole questa gente”, si domanda la Finocchiaro di fronte ai militanti del suo stesso partito), teso alla perpetuazione di se stesso, non risulta più credibile. Così D’Alema (e con lui il Pd) perde anche quando le sue manovre dietro le quinte paiono premiarlo. La sua supposta intelligenza si è trasformata in stupidità nel contesto attuale. Lo stesso dicasi, per esempio, della Bindi che pur esprimendo posizioni di insofferenza verso la linea di Bersani e continuando a issare i vessilli dell’antiberlusconismo, non esita a chiedere la deroga per la sua ennesima candidatura e a scendere in Calabria, non proprio il suo territorio, per vincere primarie farlocche.

Dunque, il pamphlet di Gilioli coglie con perspicacia uno dei problemi principali che ha comportato il suicidio del Pd: una classe dirigente non interessata ne alle sorti del Partito ne a quelle del Paese ma unicamente attenta a garantirsi un altro giro di giostra.

Tracciando i profili dei leader democratici emerge però continuamente nel volume di Gilioli l’altro grande problema del Pd: la mancanza di una identità definita. Con Bersani che tenta di fare l’equilibrista usando “parole vaghe, per evitare strappi con chicchessia, ma che agli elettori sembrano solo nebbia: forse perché lo sono”. In campagna elettorale non si riesce a capire se il Pd proseguirà o meno l’agenda Monti (“la mia ricetta? Quella di Monti più qualcosa”) o quali siano le sue posizioni, per esempio, sui diritti civili, sul fiscal compact, sul pareggio di bilancio eccetera. Su tutto una posizione ambigua frutto di “un’identità molle, tiepida, compromissoria e incerta con cui ha vivacchiato per cinque anni il partito”. E, a proposito di identità, Gilioli individua la colpa originaria nel “ma anche” di Veltroni il cui capitolo ha come titolo “Il mio nome è Nessuno”.

Il problema dell’identità, dell’anima del Pd, è centrale (forse anche più di quello della classe dirigente). Ma forse proprio a Veltroni qualcosa si può perdonare. Sicuramente, non ha saputo dare un’identità al Pd e neppure rinnovare la sua classe dirigente. Ma farsi carico delle pesanti identità di origine e degli ancor più pesanti gruppi dirigenti di Ds e Margherita non era per nulla facile, soprattutto nel contesto delle fibrillazioni del secondo governo Prodi. E Veltroni ha tentato di darle delle risposte a entrambi questi problemi: annacquando le identità di origine (operazione che poteva valere come sbancamento del terreno) e cercando un rinnovamento esogeno della classe dirigente. Risposte evidentemente sbagliate (aver portato Calearo in Parlamento è stigma indelebile). Ma chi è venuto dopo ha pensato bene di non porseli neppure quei problemi. E così invece di usare il vuoto veltroniano come possibilità per ricostruire, i segretari successivi hanno pensato solo a occupare posizioni nel partito e nelle istituzioni.

Potrà risorgere il Pd? Gilioli risponde “quasi impossibile”. So di non fargli piacere, ma non posso che convenire su questa sua amara conclusione. Non si notano infatti in giro ne il coraggio ne la visione che potrebbero segnare una svolta. Posso solo sperare nel poetico “dov’è il pericolo, anche ciò che salva cresce”.  

 

di Antonio Tursi – twitter @antonio_tursi

Scritto da Redazione

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