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La crisi del neoliberismo e della governabilità coatta

La crisi che stiamo vivendo è totale. Coinvolge ogni aspetto della convivenza umana. È crisi politica, economica, sociale, istituzionale, morale. Viene da lontano. Da quando iniziò la controrivoluzione capitalistica.

 

Quella che reagì alla fondazione e alle realizzazioni dello stato sociale costruito in Occidente nei trenta “anni d’oro” della “rivoluzione sociale” e della”rivoluzione culturale” come li chiamò Hobsbawm. Reagì per liquidarne le conquiste, rovesciarne i principi, disperdere i soggetti storico-politici che lo avevano progettato e che lo sostenevano. Ha compattato la sua azione dissolutrice sostituendo alle politiche keynesiane il neoliberismo, all’etica della solidarietà e dell’eguaglianza quella dell’individualismo proprietario, della concorrenza distruttiva e della competizione omicida, al pluralismo ideale e politico l’assolutismo del pensiero unico, alla rappresentanza politica inclusiva quella selettiva delle sole domande compatibili con l’economia del turbo-capitalismo, alla primazia dei Parlamenti la mistica della governabilità.

Da questo coacervo esplosivo emerge la spinta della crisi economica che ha creato più di venti milioni di disoccupati in Europa e in Italia un’area di 8 milioni e 750 mila persone in stato di difficoltà nel lavoro e di disagio sociale tra disoccupati, scoraggiati, cassintegrati, precari e part-time involontari (dei quali più del il 36 per cento giovani).[1] Crisi che non accenna ad attenuarsi né può perché la religione neoliberista, avendola provocata, continua ad ispirare con l’austerity la politica economica dell’Unione europea per esserne il fondamento. Per di più ha trovato nel rapporto tra società e stato il cratere sul quale versare tutti i suoi deflagranti effetti di dissoluzione del tessuto sociale e morale, con fame, suicidi, violenze, malattie infettive, calo precipitoso delle condizioni di salute dei Paesi su cui l’austerity si scatena con forsennato vigore.

Tra essi infatti si distingue, per evidenza, quello che incrina proprio la ragione che ha preteso di legittimare lo stato come concentrazione, fonte e ricaduta del potere sulla pluralità dei suoi destinatari, sugli uomini e sulle donne che integrano la cosiddetta “società civile”. Il fondamento della pretesa è noto. Fu l’assunzione del compito di garante della sicurezza dei sottoposti da cui derivò la titolarità del monopolio della forza legittima da usare solo a difesa della loro vita e dei loro beni all’interno e dall’esterno dei confini. Dopo secoli di deviazioni, torsioni, regressioni, negazioni, quella sicurezza si era incrementata, arricchita, mirava a consolidarsi. La si qualificava aggettivandola come “sociale”. È l’affievolirsi progressivo di questa qualificazione che ha determinato la crisi politica che investe le istituzioni dello stato e lo stato stesso. Investe le istituzioni per essere state considerate – e fondatamente – come responsabili dello svuotamento della socialità dello stato e lo stato per aver abdicato alla missione che gli era stata assegnata. C’è una strumentazione duplice nell’età contemporanea che determina l’interazione tra stato-apparato e pluralità umana cui si riferisce. La strumentazione è la rappresentanza che funge da canale insostituibile del flusso di legittimazione che congiunge la base umana e la sovrastruttura istituzionale statale. Tale strumentazione, perché ignara di bisogni, progetti ed ideali delle masse umane che formano un popolo, si rivelerebbe vuota di contenuto, resterebbe muta di fronte all’apparato istituzionale, se a formulare le domande di soddisfare bisogni, di favorire progetti, rispettare le speranze non fossero soggetti plurimi. Tali perché plurima è l’entità legittimante e, ad un tempo, diversificata per posizione economica e sociale, per cultura, propensione, progetti di vita. Plurima infatti è, quanto a contenuti, ogni domanda che abbia senso politico non immediato e non occasionale.

La pluralità dei contenuti non può essere d’altronde sconnessa ma neanche indifferente a fronte di un qualche criterio ordinatore, coordinatore ed anche selettivo che dia un senso complessivo alla domanda per procurarle una forza condizionante se non addirittura vincolante e comunque idonea a farla valere ed accogliere.

È del tutto evidente che riferirsi ad un criterio ordinatore e finalizzato a realizzarsi è lo stesso che richiamarsi ad un principio che non può che essere politico. Sto evocando il partito politico? Sì. Ma definendolo innanzitutto ed essenzialmente come strumento di espressione di domande che emergono dalla società, che alla società possono tornare, previa trasformazione in diritti, in garanzie, in beni disponibili ed appropriabili dalle masse di coloro che quelle domande hanno formulato reclamandone l’accoglimento e che perciò si sono organizzate appunto in partiti politici.

Ho voluto in tal modo significare la necessità dell’inerenza dei partiti alle domande sociali, ai bisogni umani, ai progetti di trasformazione sociale. O anche di difesa degli assetti esistenti. Ma comunque alla loro strumentalità rispetto alle istanze della base umana della convivenza. Inerenza, strumentalità che devono porsi come invarianti e come costanti della dinamica politica per affermarne e riprodurne il senso. Che verrebbe disperso e poi negato se la pluralità dei partiti si configurasse come simmetrica riproduzione degli apparati statali. Autoreferenziali come quelli rispetto ai quali devono invece porsi come espressivi di interessi altri. Altri appunto rispetto a quelli delle istituzioni statali, la cui referenza è data dagli interessi pubblici già legalmente canonizzati (dicastero per dicastero) laddove gli interessi che le domande sociali mirano a soddisfare non sono ancora legalizzati o lo sono ma in modo insufficiente o distorto nella percezione della base da cui partono le domande sociali.

Sono davvero partiti politici quelli esistenti in Italia? Sono qualificabili come estrattori, selettori e portatori di domande sociali coordinate in programmi credibili, non mediati con tutti i contenuti immaginabili e sfocati? Sono stati e sono collegabili a una qualche storia non rinnegata o non confessabile, o non indebitamente appropriata? Sono identificabili in qualche progetto almeno dignitoso di società e di stato, in qualche ideale non fumoso e non pasticciato, si basano su un qualche embrione di democrazia interna non degradata a riti acclamatori occasionali? La risposta è ovviamente scontata. D’altra parte, con l’eccezione del PD, hanno rifiutato anche il nome di partito le formazioni elettorali che si sono presentate agli elettori 24 e 25 febbraio scorso. Una scelta onomastica che potrebbe apparire onesta – perché autentici partiti non sono – se non fosse dovuta alla voglia di presentarsi con una qualche logora maschera dell’antipolitica proprio nel compiere l’atto politico per eccellenza, quella dell’elezione alle Camere del Parlamento[2].

A degradare i partiti in quel che son diventati è stata certamente l’adesione e la conversione alla funzione servente della cosiddetta “governabilità”. Sia perché per una elite (non più di “rivoluzionari professionali”, né di credenti impegnatisi nel sociale per obbedienza al loro sentimento religioso, né di borghesi per difendere con i diritti di libertà, che avevano conquistato per tutti, quello di proprietà da garantire alla propria classe) governare è più attraente che rappresentare. Sia perché la connessione diretta elezione-governo riduce a due sole le cadenze del rapporto fondante della democrazia moderna che è, come è più che noto, quello che procede dall’elezione per conseguire la rappresentanza da cui promana il governo se divisa in maggioranza e minoranze. L’elezione diretta del governo elude la rappresentanza, la comprime, la dissolve nell’investitura del governo sostanzialmente immunizzandolo dalla responsabilità politica, che evapora nello spazio e nel tempo. Nello spazio, per l’enormità che lo allontana dal corpo elettorale. Nel tempo, per la distanza che separa una elezione politica da quella successiva. Un esercizio efficace degli strumenti predisposti per far valere la responsabilità politica da parte del Parlamento è d’altronde frustrato dalla disciplina di partito che collega strettamente maggioranza e governo. Soprattutto nei sistemi bipartitici o, peggio, bipolari. Quelli che, con effetti disastrosi per la credibilità della rappresentanza, mediante sistemi elettorali ad altissima distorsione vengono raccomandati o addirittura imposti per garantire la “governabilità” [3]. Di questo termine “governabilità” non è mai superfluo ricordare l’origine. Fu la Commissione Trilaterale[4] a farne lo slogan di una politica, di una ideologia, di una lotta. Di una politica istituzionale mirante al taglio preventivo di ogni domanda incompatibile o non coincidente con le risposte che poteva dare il mercato capitalistico. Una ideologia servente ed esaltante il liberismo come principio pervasivo del sistema economico e di quello sociale. Una lotta spietata alle conquiste dello stato sociale.

Ma è necessario rivelare in che cosa sostanzialmente si sia poi tradotta la “governabilità”, in che cosa sia consistita e consista. Si può dire, con sufficiente sicurezza, che si sia trattato e si tratti di una tecnica coattiva funzionale all’esecuzione di imposizioni derivanti da esigenze altre rispetto a quelle proprie dei sottoposti e per obiettivi non scelti da soggetti, istituzioni, organi che li deliberano. Esigenze ed obiettivi che hanno coinvolto gli stati ponendosi al di sopra di essi ma assumendone la forza prescrittiva. Volere, proporre, mirare a realizzare la “governabilità” equivale a volere, proporre e realizzare una doppia espropriazione. Una a carico dei governi, l’altra a carico dei popoli. La governabilità è trasformazione degli esecutivi mediante la sostituzione del termine del rapporto del quale eseguire il volere. Al posto del Parlamento si colloca il sistema economico, quello capitalistico della finanza globale. Per rendere possibile tale sostituzione è stato però necessario incidere sui fondamenti del sistema statuale, aggredendo la rappresentanza politica. Svuotandola e per svuotarla sono stati operati due altri interventi. Uno sui partiti politici sostituendone il genoma. Erano nati – lo si diceva – come strumenti della rappresentanza, li si converte rendendoli funzionali alla governabilità. La cui condizione ottimale è data dalla riduzione del sistema dei partiti a due soli, assimilati nel convergere al centro e assicurare l’alternanza di omologhi. È perciò che da portatori delle domande della società sono poi diventati agenzie personali o di consorterie. Non poteva mancare l’intervento definitivo di mutazione genetica dello stato democratico. Ha riguardato l’atto politico che identifica la forma di stato prima ancora che la forma di governo. Inerisce alla declinante deriva della democrazia e ne prepara l’estinzione. Ormai, nel senso comune e per gli effetti derivanti da mistificanti sistemi elettorali, con le elezioni politiche generali non si eleggono più i parlamenti ma i governi. Che, appunto perché eletti con sistemi ad effetti maggioritari dispongono di un potere legale che li immunizza dalla responsabilità politica nei confronti della rappresentanza parlamentare. Responsabilità dei governi che, peraltro, si dissolve nella collegialità sovranazionale europea dei Consigli (quello dei capi di stato e di governo e quello dei ministri) e della Commissione responsabile sì ma … nei confronti dei Trattati, quindi dell’astratto principio posto alla sua base, quello neoliberista dell’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza.

Eleggere governi significa, dunque, eleggere esecutori di dettami normativi sovrastatali, significa sottrarre ai popoli quel potere che fu denominato sovrano provando a rovesciarne la titolarità e l’esercizio dall’alto dov’era verso il basso. Ma che da venti anni viene sospinto verso l’alto restaurandone la collocazione spaziale che gli riservavano gli stati assoluti. Solo che ad una dinastia regnante viene sostituito un modo di produzione dispiegato secondo la più spietata delle sue realizzazioni. L’ordinamento dell’Unione europea è emblematico di questa corrispondenza tra strutturazione economica della società e sovrastruttura istituzionale. L’enorme deficit di democrazia che lo caratterizza è stato riconosciuto anche da una delle Corti costituzionali dell’Europa, ilBundesverfassungsgericht, che giudicando sulla legge di ratifica del Trattato di Lisbona, nel giugno 2009 non esitava a dichiarare che l’ordinamento europeo non ha né basi né struttura democratiche. Era ed è infatti costruito per restaurare nella sua pienezza l’economia capitalistica non mediata, non controllata, non soggetta ai limiti derivanti dalla democrazia, per costruire il monumento del neoliberismo istituzionalizzato. Che, d’altronde, solo nella dimensione sovranazionale può essere affrontato, disarmato ed almeno regolato.

Il fallimento del principio e della realizzazione di quest’ultima versione del capitalismo non ha trovato un soggetto storico-politico che ne denunzi il catastrofico fallimento e ne proponga il superamento o, almeno, la transizione verso un nuovo modello di sviluppo economico sociale e politico. L’avversario storico del capitalismo è stato disperso dalla globalizzazione e dal tragico fallimento del socialismo reale. I partiti eredi di quelli che organizzarono e rappresentarono il movimento operaio immedesimandosene hanno accettato il neoliberismo e di fronte al fallimento di quest’ultima configurazione del capitalismo brancolano nella ricerca di mezzi e forme che ne attenuino almeno gli effetti disastrosi. Non traggono però tutte le conseguenze della loro sciagurata acquiescenza al trionfo del loro antagonista. È in tale congiuntura storica che si è votato in Italia il 24 ed il 25 febbraio scorso per il rinnovo delle Camere del Parlamento. Alle cifre della disoccupazione indicate all’inizio bisogna aggiungere l’incremento del precariato, l’inarrestabile riduzione dei redditi da lavoro, le migliaia di aziende chiuse, la contrazione crescente di consumi, la scandalosa riduzione delle risorse destinate alla scuola e alla ricerca, la fuga dei ricercatori, la caduta del nostro Paese all’ultimo posto del tenore di vita degli Stati d’Europa, il suicidio per disperazione di operai e di imprenditori. Questa congiuntura può essere quindi definita come quella dei fallimenti interdipendenti. Del neoliberismo che prometteva progresso economico e sociale, sviluppo sostenibile, coesione sociale e del sistema istituzionale sul quale si è basata l’Unione europea. Della governabilità come conseguenza dello svuotamento della rappresentanza e della connessa mutazione genetica e funzionale dei partiti politici, che in Italia ha raggiunto la forma esasperata ma certamente indicativa di una regressione che coinvolge tutti i Paesi dell’Occidente capitalistico. Le catastrofiche conseguenze economiche e sociali abbattutesi sull’Italia con tali fallimenti non potevano non riflettersi sui risultati elettorali. Il successo del M5S angoscia ed allarma per la esasperata personalizzazione del potere che lo aggrega, per gli obiettivi totalizzanti che va gridando il suo leader e per la contraddizione endemica degli interessi che affastella e vorrebbe rappresentare, anche se tra le proposte che avanza non sono poche quelle condivisibili. Va detto però, oltre ogni ragionevole dubbio, che quello del M5S è un successo dovuto alla abdicazione da parte del Pd della rappresentanza delle masse colpite dall’austerity, riconosciuta come errore dal FMI (dopo averla prescritta per decenni) e imposta spietatamente dall’Europa dei mercati, contro la quale austerità tale partito non si è battuto, perdendo il consenso di tre milioni e mezzo di voti. Così come, dalla parte opposta, il Pdl, che propugna il premierato assoluto fino alla monocrazia, ha perduto quattro milioni di voti per aver dimostrato chiara e assoluta incapacità di governare e per essersi dimostrato inequivocabilmente solo azienda privata di gestione politica degli interessi privati del suo leader.

La conclusione non pare dubbia. È duplice. La catastrofica crisi economica è sicuramente l’effetto dell’economia autoregolata del neoliberismo. L’ingovernabilità del Parlamento del bipolarismo fallito e della rappresentanza mistificata è il prodotto della “governabilità” coatta. Ai “trent’anni gloriosi” che nel secolo scorso derivarono dalla vittoria dell’antifascismo e dell’anti nazismo nella guerra rivoluzionaria, sono seguiti i quaranta di piombo della controrivoluzione del capitalismo neoliberista. Constatarlo non basta, certo. Ma è doveroso. Così come è doveroso denunziare le torsioni che sono state perpetrate dal febbraio all’aprile di quest’anno in Italia sulla forma di governo e non tutte ascrivibili alla liquefazione della forma di stato con l’attrazione della sovranità popolare, a mezzo dell’abdicazione degli stati, nella dimensione sovranazionale dell’Eu, per disperderla assoggettandola al dominio del mercato neoliberista. Il pur pessimo sistema elettorale vigente una maggioranza parlamentare la aveva pur determinata ed era addirittura assoluta alla Camera dei deputati. Solo da questo risultato, da questa situazione di fatto, peraltro inequivocabile, poteva e doveva scaturire l’esercizio, da parte del Presidente della Repubblica, del potere di affidare l’incarico di formare il governo. Incarico che fu infatti affidato, ma alla condizione di “dimostrare in modo certo di avere i numeri per la fiducia”. Un condizione “quasi impossibile[5].

Per essere stata posta ed in tali termini, questa condizione pone problemi. Non pochi. Non certo quelli dell’estensione, nel sistema parlamentare, dei poteri del Presidente della Repubblica in ragione esattamente corrispondente alla contrazione di quelli di uno degli altri due organi o di tutti e due, istituzionalizzata o contingente che sia tale flessione. Si tratterrebbe di una variante fisiologica del funzionamento del sistema. Si sa o, invece di andare cianciando dell’avvento subitaneo del presidenzialismo autentico (o aggravato ma camuffato come dimezzato), si dovrebbe sapere da parte dei fautori dell’autoritarismo istituzionale, che la nostra come ogni Costituzione lascia tra norma e norma rilevanti ed inevitabili spazi bianchi. A coprirli provvedono le normative di attuazione mediante leggi, regolamenti, consuetudini. A tali normative si aggiungono le convenzioni, che intercorrono tra gli organi supremi impegnandoli reciprocamente in quanto riflettono i rapporti di forza istituzionale che tra essi si stabiliscono e si riconoscono. È in uno di tali spazi bianchi che si aggruma un plus-potere a densità variabile e a titolarità indefinita e perciò disponibile per l’organo che viene a trovarsi, volta a volta, nella situazione di maggiore forza istituzionale. Tale forza, allocandosi in uno dei tre organi che compongono la configurazione essenziale della forma parlamentare di governo, integra la convenzione[6]. Conferisce infatti l’attribuzione specifica di quel plus-potere specifico di usare l’ampiezza dei margini che la condizione concreta può, ad esempio, conferire al propulsore della dinamica del sistema, quale è il Presidente della Repubblica. O in altre circostanze conferisce al Parlamento tale plus-potere se una maggioranza, già definita a seguito dell’elezione, è in grado di esprimere il candidato all’incarico o, addirittura, alla nomina di Presidente del consiglio. Ed è da convenzioni costituzionali che derivano d’altronde sia le consultazioni sia l’incarico di formare il governo. A determinarne la necessità fu il sistema politico a struttura multipartitica. Se tale struttura per contrazione, mutilazione o mutazione genetica cambiasse diventando strettamente bipartitica non solo si realizzerebbe il sogno degli idolatri di tale modello di sistema politico, ma scomparirebbero le consultazioni e scomparirebbe l’incarico, per sopraggiunta e contestuale inutilità. Pur in presenza di un sistema multipartitico, ma dispostosi in coalizioni contrapposte, a seguito dei risultati avutesi con le elezioni del 2006 e 2008, le consultazioni che in quelle due occasioni precedettero il conferimento dell’incarico di formare il governo furono di mero stile. Così come apparve ed era come del tutto scontato il conferimento dell’incarico di formare il governo al leader della coalizione che aveva ottenuto la maggioranza dei seggi. Pur se, a seguito delle elezioni del 2006, la coalizione che disponeva della maggioranza assoluta alla Camera disponeva al Senato della sola maggioranza relativa. Ad integrarla, quando occorreva, erano infatti i voti dei senatori a vita e di diritto.

Le elezioni del 24-25 febbraio scorso hanno prodotto un risultato esattamente identico a quello del 2006 quanto a composizione dei due rami del Parlamento, quanto a coalizione risultata maggioritaria assoluta alla Camera. Ma al leader della coalizione vincente nei due rami del Parlamento non è stato conferito l’incarico che fu offerto al leader della coalizione vincente nel 2006. A situazione uguale un trattamento diseguale: il massimo di contorsione di un principio giuspolitico cardine della civiltà contemporanea. Una contraddizione anche di immediata evidenza. Non basta. La richiesta al leader della coalizione vincente di “mostrare di avere i numeri certi” per ottenere la fiducia comportava la dimostrazione anticipata di un comportamento altrui e, per di più, prima ancora che maturassero le condizioni e prima di offrire le motivazioni che avrebbero potuto permettere e quindi consentire, determinare un tale comportamento di forze politiche in Parlamento.

Nel porre la condizione, la richiesta fuoriusciva dalle competenze del Presidente della Repubblica per eccesso nell’esercizio. Perché comportava l’effetto sostanziale di precostituire, rispetto al Parlamento e rispetto allo stesso Presidente del consiglio incaricato, il programma, cioè la premessa e la prefigurazione dell’indirizzo politico del governo, se non anche la composizione del Consiglio dei ministri. Invadeva l’ambito delle competenze dell’uno e dell’altro.

Lo stanno a dimostrare due atti del Presidente. Uno è quello dell’istituzione il 30 marzo di “due gruppi di lavoro” col compito di accertare le convergenze che si erano raggiunte tra le forze politiche pur contrapposte, e duramente, da decenni e nel corso della recentissima campagna elettorale in ordine alle riforme istituzionali ed alle misure da adottare per fronteggiare la crisi economica. Si era trattato di una iniziativa presidenziale assolutamente innovativa del procedimento di formazione del governo. Ma significativamente preconizzante la formula del governo che poteva essere costituita ed anche il programma. Lo si desumeva dalla notorietà dei componenti dei due gruppi di lavoro la cui “tecnicità” ben si sposava con le diverse aree di cultura politica cui apparteneva ciascuno di essi, aree che non a caso coincidevano con tre delle quattro forze politiche risultanti dal responso elettorale, esclusa quella che per la prima volta conquistava la sua presenza nelle aule del Parlamento, il M5S. Più che intuibile risultava così la scelta del Presidente sulla formula di governo per la quale operava, quella delle cosiddette “ampie intese” cioè dell’infausto connubio tra un partito che ha sbandierato la legalità come suo valore fondante e quello che ha come leader un imputato abituale. L’altro atto sicuramente estensivo delle competenze presidenziali è contenuto nel messaggio che il Presidente Napolitano rivolse alle Camere in seduta comune con i rappresentanti delle Regioni dopo aver prestato il giuramento di fedeltà alla Repubblica. Un messaggio quanto mai duro nel denunziare la “lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità” [7] delle forze politiche come premessa per pronunziarsi con tono chiaramente prescrittivo “sull’insieme degli obiettivi in materia di riforme istituzionali e di proposte per l’avvio di un nuovo sviluppo economico più equo e sostenibile”. Obiettivi che “anche per ovvie ragioni di misura” del messaggio rinviò “ai documenti dei due gruppi di lavoro … istituiti il 30 marzo” esaltandone la “serietà e concretezza” ed anche i fondamenti sulle “elaborazioni sistematiche non solo delle istituzioni in cui operano i componenti dei due gruppi ma anche di altre istituzioni e associazioni qualificate” [8]. Pari rilevanza ed eguale problematicità mostrano le successive considerazioni del Presidente Napolitano nella parte conclusiva del messaggio. Attengono alla delicata concezione delle funzioni presidenziali relative alla formazione del governo. Come a voler attrarre nella esatta configurazione della forma di governo che la nostra Costituzionale ha dettato sia la predisposizione dei contenuti del programma governativo come quello disegnato dai documenti dei due gruppi di lavoro che aveva istituito il 30 marzo, sia l’imperiosa affermazione appena operata della necessità politica di realizzare gli obiettivi indicati da tali documenti, il Presidente afferma che non spetta a lui “dare mandati per la formazione del Governo che siano vincolati a qualsiasi prescrizione, se non quella voluta dall’articolo 94 della Costituzione, un Governo che abbia la maggioranza in ambedue le Camere”.[9]

Tesi ineccepibile. Se non se ne traessero alcune conseguenze francamente eccessive, e qui l’eccesso è esattamente nell’incremento di quel plus-potere che perviene dalla condizione specifica in cui si può trovare uno dei tre organi del sistema parlamentare di governo e che a seguito delle elezioni del 24-25 febbraio è stato acquisito dal Presidente della Repubblica. Potere che, com’è evidente, non gli sarebbe minimamente toccato se la coalizione dotata della maggioranza assoluta alla Camera avesse conseguito un corrispondente risultato anche al Senato. Prescindendo dalla coincidenza con l’elezione del Presidente della Repubblica, nell’ipotesi testé configurata, non ci sarebbe stata né l’istituzione dei gruppi di lavoro e, con ogni probabilità, neanche un messaggio presidenziale sulle riforme così imperioso e sopratutto condizionante il programma e l’indirizzo di governo. Stante la acquisizione di un plus-potere a favore del Presidente della Repubblica prodotta dalla mancanza della maggioranza assoluta al Senato per la coalizione che la ha invece ottenuta alla Camera, la questione che ne deriva è quella della misura di questo plus-potere presidenziale. Poteva e, in via generale può mai, tale plus-potere che la forma parlamentare di governo produce in determinate evenienze a favore di uno dei tre organi cha la compongono, correttamente sottrarre ad uno degli altri due o ad ambedue il contenuto essenziale del potere che a loro deriva dalla presenza nella stessa composizione di tale forma? A negare detta possibilità è la stessa configurazione del quesito che non può avere diversa risposta se lo si specifica. Se cioè lo si riferisce alla possibilità che ad una maggioranza parlamentare, che il voto popolare aveva resa assoluta alla Camera e relativa al Senato, si possa precludere il potere di esprimere un Governo e di chiedere ai due rami del Parlamento di pronunziarsi su di una mozione di fiducia a tale Governo motivata dal programma enunciato e dall’indirizzo che si impegna a realizzare[10]. Quel che stupisce è che tale potere di proporsi come maggioranza di governo o comunque come forza parlamentare decidente la formula del governo da costituire non sia stato esercitato. Il che, d’altronde, conferma la recessione del partito politico quanto a dignità politica ed a ruolo, come si notava all’inizio di queste riflessioni. C’è da domandarsi: tale acquiescenza può costituire precedente e vincolare la prassi futura dando origine ad una deminutio del potere parlamentare a vantaggio della sfera dei poteri presidenziali? Non è detto. Un effetto costitutivo di incremento stabile del potere presidenziale non dovrebbe essersi prodotto. Innanzitutto perché se si dovesse replicare la vicenda che si esamina ben potrebbe una maggioranza zoppa in una delle due Camere rifiutarsi di accedere alla soluzione della crisi risoltasi con la formazione del governo delle “larghe intese”o ad altra soluzione non conforme al suo programma elettorale o addirittura alla sua identità politica. Ma soprattutto perché potrebbe essere constatata la fallacia della concezione del potere presidenziale di nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri fondata sulla idolatria della governabilità e del maggioritario che da trent’anni stanno sconvolgendo la Costituzione della Repubblica e travolgendo la democrazia italiana. È il sistema elettorale maggioritario infatti che, se poggia sul bipartitismo o produce gli effetti del bipartitismo, determina mediante i risultati elettorali immediata costituzione della maggioranza e del governo. Sistema clamorosamente fallito in Italia come dimostrano proprio le elezioni del 24-25 febbraio ma che, non ostante il fallimento, continua ad esercitare tale disastrosa influenza da determinare effetti perversi sulla tenuta della forma parlamentare di governo.

Si rende però necessario soffermarsi ancora sul significato istituzionale della vicenda che ci occupa. Che si sia concretata una delle figure di eccesso di potere ed esattamente quella di straripamento (détournement direbbero i giuspubblicisti francesi che la scoprirono come vizio dei provvedimenti amministrativi) appare sicuro. Così come va detto, a scanso di equivoci, che non si tratta di potere amministrativo esercitato con atti amministrativi, come tali giustiziabili, ma di potere politico tradottosi in atti politici e come tali non giustiziabili. Ma sottoposti allo scrutinio della dottrina costituzionalista ed al controllo diffuso dell’opinione pubblica, sì. Compiere tale scrutinio comporta la rilevazione in questi atti dello straripamento del potere. Sia per sottrazione al Parlamento della valutazione, del giudizio, della decisione di altre eventuali e non del tutto improbabili soluzioni della crisi rispetto a quella “delle larghe intese” attraendo nelle competenze presidenziali tale esclusiva valutazione. Sia per svuotamento del ruolo delle dichiarazioni programmatiche e della determinazione dell’indirizzo politico in Parlamento come presupposti e ragioni della fiducia, fondamento prioritario della forma di governo, perché programma e indirizzo risultano dal messaggio presidenziale predeterminati congiuntamente alla formula di governo. Sottrazione di potere parlamentare nella scelta della formula di governo, svuotamento del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento “regola essenziale”[11]della forma di governo e condizionante qualsiasi formula che la concretizzi.

Il Presidente Napolitano annunziando la composizione del Governo Letta ha tenuto a ribadire che trattasi di governo parlamentare. Lo è. Ma in una traduzione distorta della forma parlamentare di governo. Distorta dalla dominanza dell’ideologia del “pensiero unico” che ha la governabilità come postulato e il maggioritario come corollario. Dominanza che produrrebbe effetti catastrofici sulla democrazia italiana se dovesse attuarsi il programma annunciato dal Presidente del Consiglio Letta di sfigurare la forma di governo offrendola alla furia autoritaria del berlusconismo istituzionale.

P.S. La traduzione in russo del termine “maggioritario” è: bolscevico. Potremmo chiamare bolscevismo il sistema propugnato, realizzato ed idealizzato in Italia. Un bolscevismo senza rivoluzione. Il culmine della contraddizione.  

 

di Gianni Ferrara

Professore emerito di Diritto costituzionale – Università “La Sapienza” di Roma

 

[1] Cfr. www. CGIL it Ires 20.05. 2013. I dati sono confermati dal Rapporto annualedell’Istat pubblicato il 22 05 2013. [2] Sulla trasformazione dei partiti la letteratura è ormai vasta. Tra i molti A. cfr. O. Massari, La parabola dei partiti in Italia: da costruttori a problema della democrazia, inDemocrazia e diritto, 3-4 2009, 23 e ss. e soprattutto A. Mastropaolo, Dei partiti, in Id.La democrazia è una causa persa? Torino, 2011, 185 ess. [3] Cfr. M. Crozier, S. P. Huntington, e J. Watanuki, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York, 1975 [4] Ogni informazione utile all’indirizzo web http://www.trilateral.org/ . [5] La definisce così Lorenza Carlassare, Capo dello stato: potere di nomina(art. 92) e modalità di elezione (art. 83) a Costituzione invariata, www. Rivista dell’AIC, 2/2013. [6] Su tema resta fondamentale nella dottrina costituzionalista italiana G. U. Rescigno, Le convenzioni costituzionali, Padova, 1972. [7] Cfr. Camera dei Deputati – Senato della Repubblica, XVII Legislatura, Resoconto stenografico 2. Seduta Comune di Lunedì 22 aprile Giuramento e messaggio del Presidente della Repubblica, p. 2 [8] Ibidem, p. 3. [9] Ibidem, p.5. [10] È l’equilibrio tra gli organi che compongono il governo parlamentare che infatti definisce il modello come risulta da una delle classiche trattazioni, quella di G. Burdeau, Le régime parlamentaire dans les Constitutions européennes d’Aprés Guerre, tr. it, Milano, 1950, 117 e ss.,  [11] È l’espressione usata nella esauriente voce sul lemma da M. Luciani, v. Governo (forme di) in Enc. Dir. Annali III, p. 569

 

Fonte: www.fondazionepintor.net

Scritto da Redazione

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