Incontriamo la giovanissima Fabiana Lupo, regista calabrese, autrice del corto “Ballata a cinque strofe”, giunto all’ultima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Light Market.
Fabiana Lupo è autrice anche del documentario “Dentro/Fuori” (2008), vincitore del primo premio al Festival Bizzarri (Sezione Media ed Educazione) e del cortometraggio “Distanze”, che ha visto la partecipazione di Vito Annicchiarico (Il piccolo Marcello in “Roma Città Aperta”), vincitore assoluto al Corto Corrente Film Festival 2010. Dopo la partecipazione ad alcuni importanti festival del panorama nazionale ed internazionale, tra cui Milano Film Festival 2011 (Salon de refusés), per la prima nazionale del corto, Festival di Clermont-Ferrand 2012 (Marchédu film court) e Festival di Cannes 2012 (Short Film Corner), Fabiana Lupo è ormai da considerarsi una delle promesse della nuova cinematografia italiana.
Fabiana, iniziamo da te. Come nasce la tua passione per il cinema?
Ho scoperto il cinema molto presto, a dieci anni, attraverso i film di genere. Il mio primo amore è stato l’horror. Ricordo ancora quel senso di paura e, allo stesso tempo, di curiosità davanti ai primi film di Raimi e Craven, che rimangono ancora oggi dei capisaldi del genere (“La casa”, “Nightmare”, per dirne due). Anche mio padre ha contribuito in buona parte a questa passione: appena percepito il mio interesse per l’horror, mi ha fatto sedere accanto a lui sul divano e mi ha fatto scoprire i film di Dario Argento, primo fra tutti “Profondo rosso”. Questi tre titoli posso dire che sono state le mie ossessioni preadolescenziali.
Ci sono registi del passato o contemporanei che consideri dei riferimenti?
La storiografia del cinema è costellata di registi che, per una ragione o per l’altra, possono essere considerati dei riferimenti. E in qualche modo quando si fa cinema, in maniera del tutto inconscia, non si può prescindere dal rifarsi a loro. I primi autori che ho divorato con più ferocia, partendo dal più lontano al più vicino, sono stati Bunuel, Fellini e Lynch, tutti e tre accomunati dalla potenza visionaria dei loro film: i protagonisti di “Bella di giorno”, “8½” e “Mulholland drive” si trovano tutti sul varco del confine ambiguo che separa l’allucinazione da sogno e dall’ossessione, caratteristica principale della poetica dei loro autori.
“Ballata a cinque strofe”. Nevrosi, inquietudini, radici. Vogliamo parlarne?
Mi piaceva l’idea di raccontare il mondo interiore della protagonista attraverso un livello narrativo che partisse dal sensoriale per poi allontanarsi da esso. Le cinque scene da lei vissute scaturiscono dalla sua realtà percettiva ma vanno al di là di essa, fino a sprofondare nell’inconscio, nel rimosso. La metafora finale del ritorno alle radici, in una situazione apparentemente di “non ritorno”, è la chiave di volta del viaggio fantasmatico della giovane donna.
Cannes e Venezia, due esperienze importanti, immagino..
Diciamo che Cannes è stata una bella prova. Il corto era stato selezionato allo “Short Film Corner”, una sezione del festival interamente dedicata ai corti provenienti da tutto il mondo. E lì ho avuto la possibilità di confrontarmi con registi, produttori e distributori esteri, tutti molto entusiasti di “Ballata a cinque strofe” che ha ottenuto davvero dei buoni feedback. A Venezia mi sentivo già più a casa: c’ero già stata, avevo già in passato familiarizzato con l’ambiente e i ritmi del festival. Da allora ogni anno la Mostra del Cinema di Venezia è per me tappa obbligatoria, durante la quale immergermi per dieci giorni nella visione dei film in anteprima mondiale.
Come definiresti in poche righe la tua arte?
Il cinema è pulviscolo nell’aria che si aggrega su uno schermo e racconta un’immagine, una storia. E’ rarefazione, leggerezza, nell’accezione calviniana del termine. Colto questo, si è colta l’essenza del cinema.
Qual è il tuo rapporto con la Calabria, la tua terra?
Ho scoperto di essere radicata alla mia terra proprio nel momento in cui mi sono distaccata da essa per studiare e inseguire i miei sogni. Il mio immaginario visivo è legato alla Calabria.
Nel momento in cui bisognava decidere le location per “Ballata a cinque strofe” non ho avuto dubbi. Le montagne del Pollino, il vecchio centro storico di Saracena, il mio paese d’origine, il paesaggio collinare monocromo: come delle fotografie che non sbiadiscono mai, rimangono dentro chi le ha vissute.
Credi che l’arte, il cinema, potrebbero aiutare la nostra regione a riscattarsi, a superare le sue ataviche difficoltà?
In generale l’arte, in tutte le sue forme, è uno dei modi più antichi ed efficaci per riscattarsi. Ma l’arte in sé non basta. Bisogna credere ed investire in essa. Vedo che ci sono ancora registi calabresi che insistono per girare le loro storie nella loro terra, e li apprezzo molto. Ma devono essere sostenuti prima di tutto dalle Istituzioni e dalle Film Commission con una convinzione maggiore. Se la politica calabrese, e i suoi cittadini con essa, non crede nelle meraviglie che possiede, allora il Cristo di Carlo Levi non si muoverà più dalla sua Eboli.
Ti consideri un cervello in fuga o una persona che, in fondo, coglie positivamente le opportunità del “vivere fuori”?
Nessuna delle due. Sono “fuggita” dalla Calabria per inseguire un sogno. Lo stesso sogno che, se avessi potuto realizzarlo nella mia terra, non mi avrebbe costretto a prendere questa decisione drastica. Sono approdata a Roma, capitale del cinema, in un momento in cui si fatica a dire qualcosa di diverso dalla solita pappardella. L’alternativa è fuggire ancora più lontano. Dicono che “La grande bellezza” è qui, in Italia. Bene, perché non crederci davvero?
da: www.calabriaonweb.it