Molti ritengono che il problema principale della manovra annunciata da Renzi consista nell’assenza di adeguate coperture finanziarie*. La questione si pone in realtà in termini opposti: la “svolta” può avere efficacia proprio nella misura in cui essa viene finanziata con l’incremento del deficit.
Per comprendere il punto, occorre fare chiarezza su un aspetto gravemente trascurato nel dibattito di questi giorni. Mi riferisco agli effetti restrittivi dei tagli della spesa pubblica. A riguardo, la teoria economica è chiara: le manovre di riduzione della pressione fiscale finanziate da tagli di pari importo della spesa pubblica hanno di norma effetti complessivi recessivi [1]. Una conclusione che risulta confermata anche da recenti ricerche promosse dai principali istituti internazionali. Ad esempio, uno studio del FMI del luglio 2012 arriva a sostenere, con preciso riferimento al caso italiano, che un taglio della spesa pubblica di 10 miliardi determinerebbe una contrazione del Pil di ben 15 miliardi, mentre una riduzione della pressione fiscale di 10 miliardi comporterebbe un incremento del Pil di appena 2 miliardi [2]. Si tratta, naturalmente, di conclusioni di carattere generale che vanno emendate alla luce dei contenuti specifici della manovra delineata dal governo Renzi. Basterebbe sottolineare che il taglio dell’Irpef ai redditi medio-bassi risulterebbe particolarmente espansivo, perché l’incremento del reddito disponibile si trasformerebbe pressoché interamente in consumi. Al tempo stesso, sarebbe erroneo utilizzare quelle ricerche per difendere sprechi e spese pubbliche improduttive, che vanno eliminate anche per ragioni di efficienza ed equità sociale. Ma ciò che qui è importante sottolineare è che la teoria e gli studi empirici ci ricordano che una manovra di contrazione della pressione fiscale interamente finanziata da tagli della spesa pubblica ben difficilmente può avere effetti espansivi significativi.
È quindi chiaro che se il governo intendesse sul serio rispettare i vincoli europei sulla finanza pubblica, allora i tagli delle tasse non potrebbero che essere finanziati da sforbiciate alla spesa. In questo caso, la finanza pubblica resterebbe ingessata dalla necessità di chiudere il bilancio in avanzo, al netto degli interessi sul debito. E questo sarebbe un esito nefasto. L’Italia infatti registra avanzi primari sin dal 1992 (come ha ricordato lo stesso Renzi a Hollande): una sequenza record che è stata ottenuta riducendo di cinque punti il volume della spesa pubblica rispetto al Pil (dal 55% del 1993 a circa il 50% del 2013), portando la spesa di scopo per cittadino al di sotto della media europea (11.629 euro in Italia contro 13.350 dell’eurozona). Ma i risultati sono stati pessimi, visto che l’economia italiana è cresciuta la metà del resto dell’eurozona e il rapporto debito/Pil è aumentato di circa 35 punti.
Tuttavia, ci sono molte ragioni per domandarci se il premier intenda effettivamente rispettare i vincoli europei. In primo luogo, perché le fonti di finanziamento citate da Renzi non possono realisticamente coprire, almeno per quest’anno, le misure proposte. Inoltre, è già stata esplicitata l’intenzione di fare crescere il deficit sino al 3%, utilizzando il margine d’azione permesso dalla differenza tra il valore del deficit tendenziale, assai ottimisticamente stimato al 2,6%, e il vincolo europeo. Il che già significherebbe mettere da parte gli obblighi europei al pareggio strutturale del bilancio, per non parlare dell’abbattimento del debito.
Auguriamoci quindi che l’Europa non ostacoli il nostro attuale percorso verso lo sforamento del vincolo sul deficit, senza nemmeno chiederci una inaccettabile deflazione salariale, che molto meno di incisive politiche industriali può essere utile a tenere in equilibrio la bilancia commerciale. Insomma, la svolta di Renzi può essere buona se in deficit spending. Svanita questa occasione, il rischio che l’Italia perda contatto con l’Europa centrale si farebbe concreto. E a quel punto – come rilevato anche dal “monito degli economisti” pubblicato a settembre dal Financial Times – il rischio di una implosione della moneta unica diverrebbe concreto. Speriamo che nell’attendere l’arrivo di Renzi a Berlino, la Merkel sappia tenerne conto.
di Riccardo Realfonzo
*Una versione di questo scritto è stata pubblicata da L’Unità il 16 marzo 2014.
[1] Chi volesse approfondire il tema dovrebbe prendere le mosse dal famoso teorema di Haavelmo, oggetto di studio nei corsi di fondamenti di economia politica. Il teorema mostra che un incremento della spesa pubblica finanziato da un identico incremento del prelievo fiscale determina una aumento del Pil pari all’incremento della spesa pubblica. E viceversa.
[2] Il riferimento è a N.Batini, G. Callegari e G. Melina, Successful Austerity in United States, Europe and Japan, IMF Working Paper, July 2012.
da: http://www.economiaepolitica.it/