“Ettore Majorana, lo scomparso e la decisione irrevocabile”. E’ un libro di Stefano Roncoroni (73 anni, critico cinematografico, regista televisivo e parente di Majorana) che getta fasci di luce sulla scomparsa dello scienziato misteriosamente dileguatosi nel 1938. Ordinario di Fisica all’Università di Napoli e straordinariamente abile nel calcolo matematico, Ettore Majorana desta tuttora forti suggestioni.
Sulla base delle novità contenute nel libro di Roncoroni (“Editori internazionali riuniti”), il medico catanzarese Giovanni Forte di recente ha ipotizzato (“Vi dico io dove si rifugiò Ettore Majorana. E di che malattia morì nel 1939”. In attesa che la famiglia rompa gli indugi, parla un medico catanzarese…) che Ettore Majorana nell’estate del ’39 morì in Calabria. Affetto da una malattia organica s’è rifugiato a Chiaravalle, in provincia di Catanzaro, nel Convento dei Cappuccini, in un luogo dove sorgeva uno dei centri più accreditati in Italia nella lotta alla ‘tbc’: il Sanatorio San Giovanni Bosco”. Ora parla Roncoroni. Che puntualizza: “Majorana non mori in Calabria”. Ma lascia aperta l’ipotesi Serra San Bruno e Chiaravalle come luoghi di un suo rifugio. E invita i calabresi che possono aver visto o avuto indiscrezioni sul passaggio di Majorana in Calabria a dare una mano. Dopo 76 anni dalla scomparsa è tempo di verità. Il libro di Roncoroni si avvale di più documenti. Ma il punto di forza consiste in uno scritto dello zio di Ettore, Giuseppe Majorana, iniziato nella tarda estate del 1939 e rimasto incompiuto per la morte dell’autore, dicembre del 1940. Le novità che Roncoroni introduce nella vicenda Majorana sono di enorme portata. Una per tutte: Ettore Majorana fu ritrovato subito dopo la scomparsa (1938) e nel 1939 morì. In un colpo, vengono polverizzate le ipotesi più o meno fantasiose (s’è ritirato nella Certosa di Serra San Bruno in Calabria, stufo di un mondo che preparava la bomba atomica; in Germania, a disposizione del Terzo Reich; in Argentina dopo il crollo nazista con tanto di foto che lo ritrae assieme al criminale Eichmann) costruite in oltre sette decenni.
Roncoroni, per cominciare, chi era Giuseppe Majorana? Perché questo zio scrive un “memoriale” che poi rimane in sonno per tanti anni e in che rapporti di parentela lei è con la famiglia dello scienziato scomparso?
Comincio dalla sua ultima domanda. Io sono un Majorana per parte di donna, per questo il mio diverso cognome. Mia nonna materna, Elvira, era la sesta figlia del senatore Salvatore Majorana Calatabiano; Elvira e Fabio, il padre di Ettore, erano, dunque, fratelli; mia mamma Lavinia ed Ettore erano cugini primi. Sostanzialmente i sette Majorana, per scelta o per lavoro o per matrimonio s’erano sparsi in giro per l’Italia: Quirino viveva a Bologna; la famiglia di Fabio e quelle delle due sorelle, Elvira ed Emilia, s’erano insediate a Roma; quelle di Giuseppe, Angelo e Dante erano rimaste radicate al territorio d’origine. Questo per semplificare, perché la loro professione di politici e di professori universitari li portava spessissimo a viaggiare e ad avere altre residenze.
Torniamo a Giuseppe, lo zio del memoriale…
Giuseppe era il primo figlio maschio del senatore con tutti i diritti e gli oneri di pertinenza del primogenito che alla morte del padre diventa di fatto il capofamiglia, l’uomo di riferimento per le attività e la guida degli altri congiunti. Ma vorrei liberare questa definizione da ogni connotazione sociologica negativa e far riferimento solo a quelle connotazioni storiche che nei secoli l’istituto della famiglia s’era data nel mondo occidentale e particolarmente in Sicilia.
Vuole dire che era quasi naturale che Giuseppe Majorana desse una chiave di lettura tranquillizzante della vicenda riguardante Ettore Majorana
Esatto. Negli ambiti dei suoi doveri era quasi naturale che lo zio dovesse dare, lasciare, una versione scritta di un fatto così rilevante ed insolito come la scomparsa di un suo membro. Da questo nasce un articolo per dire il possibile, ma nulla di più, e per fare in modo che la naturale curiosità della opinione pubblica non potesse nuocere all’immagine ed alla serenità dei membri familiari ed incanalarla in un ambito meno eclatante. Quindi, sostanzialmente un compito difficilissimo, cui Giuseppe provvede in maniera non esemplare.
Vuole spiegare meglio?
Il suo testo, come spero di aver dimostrato nel mio libro, è pieno di smagliature e di contraddizioni molto importanti ai fini di scoprire la verità dello svolgimento di quella scomparsa. L’articolo, anche se non fu portato a termine per la morte di Giuseppe (dicembre 1940) e forse per questo non fu pubblicato, era conosciuto nelle varie famiglie Majorana e, nella sostanza, alle sue direttive tutti i suoi membri si sono adeguati nel parlare della scomparsa del congiunto, tanto da poter essere considerato la velina, l’archetipo, di quanto è stato poi detto e scritto, ma mai allontanandosi troppo da quella versione, in tutti questi anni. Era lì, nei loro archivi, a disposizione di tutti, ma nessuno né ha mai parlato. Per esempio, nessuno l’ha pubblicato nel 2006, in occasione delle iniziative per il centenario della morte di Ettore, tutti preferendo scrivere pensieri personali ed anonimi per presenziare alle manifestazioni.
In sostanza lo scritto di Giuseppe ed il suo libro sono gli unici lavori prodotti da membri della famiglia Majorana?
Esatto. A più di settanta anni di distanza e, naturalmente, con due finalità diametralmente opposte. Quello di Giuseppe, cerco di dirlo dolcemente, per dare una versione della scomparsa che non potesse assolutamente nuocere alla tranquillità e al crescere della famiglia.
Per allontanare ogni possibile interpretazione che potesse diminuire e colpire l’immagine che la famiglia si stava dando da due generazioni. Insomma, dire per non dire e sviare. D’altronde, Giuseppe non offre nessuna soluzione, solo omette di dire completamente quello che sa. Dice una mezza verità che non essendo completa risulta ingenua ed incredibile. Le ragioni dell’attore principale non sono accettate, perché non sono capite per quello che sono e la famiglia estromette il corpo estraneo cercando di creargli il vuoto intorno. Anestetizzando la sua azione.
Non si capiscono le ragioni di Ettore e non si condividono, quindi vengono rimosse dalla famiglia? E’ questo che vuole dire?
E’ chiarissima la motivazione che spinge Ettore: non rifiuta la vita, anche se forse un pensiero del genere l’ha sfiorato, ma intende abbandonare quella vita cui era stato costretto. Si allontana dalla famiglia e dal lavoro che lo stava instradando su sentieri che non voleva battere, che erano contrari alla sua natura, alla sua diversità, da qui, per capire il suo comportamento, l’ipotesi che Ettore Majorana fosse un Asperger. Non era un figlio cattivo era solo diverso. Lo fa di forza e quando la misura è colma. Per questo appare una scomparsa improvvisa anche se è stata a lungo meditata. Però, questa ragione da sola non giustifica l’abnorme comportamento di alcuni della sua famiglia individuabili in alcuni dei fratelli della seconda generazione. Bisognerebbe entrare in un’analisi difficile, dolorosa e spietata della struttura familiare dei Majorana per trovare elementi di contrasto profondi, sotterranei ma mai sopiti tra i magnifici cinque (escludiamo le due donne). Discorso difficile da fare e che, in parte ho iniziato a fare nel libro.
La struttura e la psicologia autoreferenziale di “quella” famiglia alla base del mistero Majorana?
Sono dinamiche interne a tutte le famiglie, sono frutto delle debolezze umane. Nulla di diabolico. Fanno parte del difficile percorso alla perfezione che tutti dobbiamo portare a termine. Non è esatto dire che in famiglia queste notizie circolassero liberamente, ma gli elementi per capire c’erano, ma prima di me nessuno, in famiglia, ha fatto queste ricerche e ha cercato di approfondire quegli aspetti della storia della nostra famiglia, necessari per capire la scomparsa di Ettore, e da questa resi tossici e, quindi, inavvicinabili. Io parto dall’imperativo, mio personale, che la vicenda di Ettore deve essere chiarita a sua giustizia, costi quel che costi. Io provengo da quell’ala della famiglia che avrebbe preferito fosse scelta un’altra dinamica, anche se a causa dei tempi (fascismo ed arretratezza della nostra società) non avrebbe mai portato a soluzioni angeliche. Ma è vero che nessuno sa qual è la verità. Nel libro ho proposto ai miei parenti di fare un lavoro unitario, ma non ho ricevuto nessuna risposta. Ora lo ripropongo.
Come ha appreso del ritrovamento, prima, e della morte di Ettore Majorana dopo, nel 1939?
La storia orale della vicenda della scomparsa nella mia famiglia era condizionata dell’estrema riservatezza, caratterizzante la famiglia Majorana tutta, ma aveva un grado di permeabilità dovuta al buon senso contadino di mio nonno Oliviero Savini Nicci, il marito di Elvira, consigliere di Stato e riconosciuto come uno dei centocinquanta servitori dello Stato con cui il Ministero della Funzione Pubblica ha voluto celebrare, uno per anno, i centocinquanta anni dell’Unità di Italia. Ho saputo dai miei zii che Oliviero Savini Nicci, nei primi mesi del 1940, a chi gli domandava di Ettore era solito rispondere “la vicenda di Ettore s’è conclusa in modo non consono”. Come racconto nel libro, ben tre persone sicuramente affidabili mi hanno detto che Ettore era stato ritrovato: mio padre Faustino Roncoroni; Salvatore, il fratello grande di Ettore; Angelino di Dante, cugino di Ettore. Tutti e tre, da me pressati, hanno detto un po’ di quello che sapevano. In attesa dei riscontri necessari per queste testimonianze, io ho detto un po’ meno di quello che mi hanno riferito.
Perché tanto tempo per apprendere la verità sulla morte di Majorana?
Il caso Ettore Majorana è il risultato unico di una serie di coincidenze e di avvenimenti eccezionali. A grandi linee: il diritto alla riservatezza della famiglia faticosamente raggiunto subito dopo la scomparsa, come un fiume carsico è rimasto nascosto per la durata della seconda guerra mondiale e, quando è riemerso è stato sconvolto e sopraffatto dagli esiti delle scoperte nucleari che poco per volta, ma in maniera definitiva, l’hanno cannibalizzato. Nessuno è stato più in grado di ritornare a guardare il caso con l’ingenua versione del “non ne abbiamo più saputo nulla” e delle sue fragili argomentazioni-ipotesi conventuali e/o di ritiro ascetico a fronte delle ipotesi ben più interessanti ed accattivanti per il grande pubblico che vedevano, in quella scomparsa, una storia misteriosa e segreta fatta di spionaggio internazionale e politico, di rapimenti e contrasti epocali fra scienziati, buoni e cattivi con Ettore arruolato ora in uno ora nell’altro campo. E infatti in tutti questi anni nessuno, tra tutti quelli che si sono interessati al caso Majorana, ha saputo fare outing e disintossicarsi da quel miraggio.
Nessuno si è accorto che quelle versioni, fatte per depistare, e per difendere la privacy familiare, e, quindi, in parte vere e in parte, non dico false, ma accomodate contenevano un alto coefficiente di credibilità, umana, logica, storica, comportamentale, sociologica. Insomma, con tutti gli ingredienti che una vicenda – che avesse coinvolto una grande famiglia, una “Dinastia Culturale” come è stata chiamata quella Majorana- avrebbe assunto e dato di sé.
Ipotesi tutte volte al depistaggio sistematico?
C’è del vero in quelle affermazioni e dichiarazioni contemporanee alla scomparsa; l’Italia era ancora un’Italietta al di fuori del grande giro. Qualcuno dei suoi abitanti è entrato nella storia, e forse dalla parte sbagliata, Ettore no, ha tolto il disturbo prima. Poco tempo prima, ma quel poco era uno iato, per me, tra il prima e il dopo. Ma per gli altri, che, secondo me, non l’hanno saputo valutare quello iato non ha frapposto ostacolo ingenerando confusione e ha tradotto quella non contiguità in una continuità, senza soluzione, con le terribili realtà dell’era nucleare. Ho scritto all’inizio del libro, quasi a mò di epigrafe, che io non credo per niente al “significato simbolico” della scomparsa di Ettore cui tutti, dai parenti a Sciascia, a Recami e a tutti quegli altri che si prostrano e si affannano per trovare alate ed eccelse ragioni a questa scomparsa. Questa è la discriminante fondamentale tra la mia verità (chiamiamola ancora ipotesi) e quella degli altri majoranologhi. Secondo me, Ettore ha mollato un certo tipo di vita che gli era stato imposto e che non reggeva più. E lo ha fatto poco prima di morire, sicuramente con una morte accelerata dalla sua decisione e dalle condizioni di vita in cui si era immerso. C’è una ricchissima bibliografia su personaggi geniali dell’ultimo secolo che hanno vissuto percorsi analoghi su cui riflettere. Mi riferisco al caso del musicista canadese Glenn Gould, al matematico americano William Sidis, o a quello inglese Simon Norton di cui si possono trovare biografie ora tradotte in italiano. Sono tre casi emblematici, diversi uno dall’altro, ma tutti legati da profondi comuni denominatori. I traumi, le paure, la genialità, l’educazione subita, l’incapacità d’ integrarsi.
Quali altri novità sono contenute nel suo libro?
La novità in assoluto è l’articolo di Giuseppe ed in una posizione sfalsata i documenti utilizzati per commentarlo, sono tantissimi e tutti inediti. Più importante di tutti l’analogo “coccodrillo” scritto da Giuseppe per la morte del fratello Fabio. Segnalo un importante “buco nero” su cui non sono riuscito che a fare delle ipotesi: il giudizio di Vittorio Emanuele Orlando che Giuseppe, compulsivamente, cita nei due articoli, questo di Ettore e quello per Fabio, ma anche in altri, che, secondo me, nasconde una chiave di lettura del post scomparsa; molto importante da svelare. Non sono riuscito a trovare l’originale del giudizio di Orlando che Giuseppe utilizza in differenti versioni. Non mi è ancora del tutto chiaro cosa voglia dire Giuseppe. Glielo trascrivo: “Nelle famiglie c’è il buono e il malo, nella famiglia Majorana il malo non esiste, tanto in bontà il meno buono supera ogni altro.” Dove, però, il commento di Giuseppe è molto interessante ma non esplicito: “Non pochi anni sono scorsi da questo giudizio” commenta Giuseppe “ed ignoro quanto nel tempo, e fra i non pochissimi soggetti, l’Amico e l’Ipercritico sia disposto a mantenerlo, né quale peso dare a ogni sua parola onde sopra, per la quale lo ringrazio.
Ho tuttavia pensiero vi fosse un elogio peculiare nel campo dei minori fratelli, il che iscusiamo in riguardo ai maggiori.” (p 54) Per il mio commento rimando al libro.
Lo scritto di Giuseppe è cruciale, proseguiamo con le altre novità utili, seguendo la sua intuizione di fondo, a farci diradare ombre e diversivi?
Il collegamento che io faccio tra il processo cui furono coinvolti alcuni miei zii – per un fattaccio di cronaca tramutato in un pretesto per fermare l’irresistibile ascesa della famiglia Majorana nel mondo politico siciliano e nazionale – e il caso della scomparsa. Un collegamento sull’ascendenza delle conseguenze, delle umiliazioni e della sovraesposizione mediatica cui fu esposta tutta la famiglia durante i vari gradi di giudizio fin quando gli imputati vennero assolti, con il comportamento e le informazioni da dare, come allora si fece, al momento della scomparsa del loro congiunto. Ha creato tanta tensione questo accostamento, credo proprio per essere stato troppo tempo evaso ed eluso un esame critico ed una riflessione all’interno dell’intero gruppo familiare su questa triste vicenda. Fu un caso di cronaca di cui si parlò moltissimo, semplice ma complicato da intromissioni esterne pesantissime. Mi ci è voluto molto tempo per comprenderne la storia e gli sviluppi, non avendo io una competenza giuridica. Sto cercando un esperto di legge per dare un senso a tanto lavoro di ricerca e documentazione…
Come valuta la tesi di una “diversità” di Majorana, rilanciata l’altro giorno su “la Repubblica” da Gianni Amelio (il regista de “I ragazzi di via Panisperna”), ossia di una sua supposta omosessualità che sarebbe la causa della scomparsa?
Sono d’accordo con la tesi di Amelio. Sono amico di Gianni e profondo e sincero ammiratore dei suoi film. Siamo stati vicini in lontani periodi della nostra carriera. Riflettiamo sul fatto che ancora fa notizia e scandalo che nel 2014 qualcuno faccia una pubblica dichiarazione di omosessualità, figuriamoci allora. Come ha dimostrato nei suoi film (su tutti consiglio di vedere “Il piccolo Archimede”) Amelio è autore particolarmente sensibile ed attuale. Dice nella sua intervista: “ho adombrato che tra le cause della scomparsa di Majorana poteva esserci la sua diversità”(la Repubblica 28 gennaio 2014). Sono d’accordo con Amelio soprattutto per quel suo “tra le cause”. Una concausa, insieme ad altre sempre di ordine personale, umano e familiare. Insomma, se fosse vero che la supposta omosessualità è una ragione per la sua scomparsa sarebbe molto interessante interpretare alla sua luce la reazione della famiglia, degli amici e colleghi e delle autorità politiche ed accademiche.
Nel libro non ne parlo, perché affronto altri problemi – quelli che affronta Giuseppe nel suo articolo tra i quali non v’è nessun accenno, è ovvio, alla vita sentimentale del nipote, figuriamoci di accenni alla sua omosessualità!- e anche un lontano e pudico accenno all’ipotesi di una sua presunta omosessualità (magari trincerandomi dietro la citazione degli autori che ne hanno parlato, per es. Joao Maguegio nel suo libro “La particella mancante”, oppure l’opinione di Amelio che mi era già nota) sarebbe stata troppo importante e dirompente ed avrebbe frastornato il lettore. Però è un aspetto che ho studiato, e su cui vorrei potermi esprimere quanto prima. Ritengo che le cose, nella vita, siano sempre semplici; ed a volte si ha ragione di pensare che un uomo, di cui non si sa di sue frequentazioni femminili, possa aver avuto quelle maschili.
Il clima di quei tempi non favoriva certo la libertà sessuale…
Per precisare il tema del comportamento ipocrita e cinico delle autorità politiche, ricordo che, proprio in quegli anni e a Catania in particolar modo, si cercava di reprimere l’omosessualità, Senise, il vicecapo della polizia poi capo alla morte di Bocchini, era un omosessuale estremamente riservato, ma noto in ristrettissimo e selezionato ambiente e conscio dei problemi che potevano, allora, nascere da una sovraesposizione della sua sessualità. Le racconto un aneddoto sicuro, storico ma volutamente poco conosciuto a favore di chi non crede all’omosessualità di Ettore. La sede di via Panisperna era molto vicina ad una delle case chiuse, come si chiamavano allora i Casini, più eleganti e meglio frequentati della capitale. Ebbene, spesso e volentieri tutto il gruppo, dopo giornate stressanti o da festeggiare, vi si recava a spese dell’amministrazione pubblica. Tutto è segnato nella scrupolosa contabilità dell’Amministratore con le iniziali dei fruitori del servizio: EF, per Enrico Fermi, ES per Emilio Segrè ed anche EM per Ettore Majorana. Anche lui, quindi, quand’era in gruppo ma anche con il solo fratello Luciano, frequentava le case chiuse. La questione è delicata e di difficile risoluzione. Ipotizzarla senza dogmi è assai utile per spiegare altri aspetti della personalità di Ettore. Mancano, al solito, le prove ed è molto difficile trovarle; abbondano, invece, una quantità di indizi da valutare con estrema cautela.
Si legge nel libro che Ettore Majorana morì in Calabria in un vallone boscoso della provincia di Catanzaro. Che elementi ci sono a sostegno di quest’affermazione?
Mi dispiace, ma nel mio libro non si dice che morì in un vallone boscoso della provincia di Catanzaro. Perché è nata questa lettura distorta non riesco a capirlo. Per scrupolo ho riletto quanto ho scritto dalla pagina 291 sul viaggio di mio padre in Calabria, ma non c’è possibilità di equivoco. Majorana, ipotizzo, soggiornò a lungo in Calabria, vi trovò rifugio, aiuto ed ospitalità ma io non affermo che sia morto lì. C’è troppo lavoro in questi giorni, intorno alla voce Ettore Majorana su Wikipedia
Se si esclude, come luogo del ritiro, la Certosa di Serra San Bruno, poiché viene meno l’idea che Majorana sia scomparso per ragioni di coscienza, la conclusione cui giunge il dottor Giovanni Forte (“Vi dico io dove si rifugiò Ettore Majorana. E di che malattia morì nel 1939”. In attesa che la famiglia rompa gli indugi, parla un medico catanzarese…), è che il rifugio prescelto dev’essere stato il Convento dei Cappuccini di Chiaravalle (uno dei primi conventi cappuccini non solo in Calabria ma in tutta l’Italia) in provincia di Catanzaro, vicino al quale c’era il Sanatorio San Giovanni Bosco, una struttura assai importante in quel tempo. Le appare verosimile?
Le testimonianze, l’oralità non escludono il soggiorno di Ettore a Serra San Bruno, ma svoltosi non nei modi indicati genericamente da Sciascia e provocati da quelle scelte e quei rifiuti simbolici che lui attribuisce alla sua scomparsa. Ho sempre immaginato, e poi saputo, che il passaggio per Chiaravalle e Serra San Bruno fossero contemporanei o conseguenti, insomma di soggiorno e di cura. Quale prima, quale dopo non ha importanza. Majorana sicuramente cercava un luogo alternativo a quello datagli dalla famiglia, un luogo di ritiro, quindi non escludo nessuno di questi luoghi. Alla fine degli Anni Settanta, e poi ancora dopo, sono stato per le mie ricerche nei due luoghi senza risultati per via del clamore suscitato dal libro di Sciascia, per la chiusura dei monaci e per la conflittualità che regnava nella famiglia Ceravolo, molto simile a quella dei Majorana.
Ha avuto modo di confrontarsi con il medico catanzarese?
Ho contattato personalmente e di mia iniziativa il dottor Giovanni Forte e ci siamo incontrati a Roma. Abbiamo avuto un colloquio molto disteso ed esteso in cui ci siamo detti tutto quello che sapevamo o immaginavamo sull’episodio, ci siamo lasciati con la ferma intenzione di mantenere i contatti. Gli ho detto con chiarezza quali erano le ragioni e le testimonianze in mio possesso per cui ritenevo la Calabria un importante momento del lungo viaggio di Ettore verso la Sicilia. Nell’isola convergono molte testimonianze già note. Il frate barbiere, l’ipotesi di Acireale, le parole del padre Ricceri, la variante del giornalista Di Bella, qualcosa della famiglia Majorana; tutte, comunque, da accertare.
La Calabria, dunque, in tutto questo groviglio come c’entra?
Catanzaro, Chiaravalle e Serra San Bruno costituiscono un accumulo di circostanze e voci che vanno approfondite per la loro importanza. Vi spiego il perché: basterebbe che dalla memoria della città di Catanzaro (i privati o le autorità che hanno comunicato a Roma la possibile presenza di un uomo che corrispondeva alle descrizioni del ricercato Majorana), oppure dagli archivi delle strutture di Chiaravalle (anche qui dalla cittadinanza e dal convento dei Cappuccini o dal Sanatorio) o da Serra San Bruno, sbucasse un solo piccolo documento con una data, un indizio certo perché sia confermato questo lungo viaggio in Italia di Ettore Majorana e vanificare tutte le fantasiose ipotesi proposte finora. Per ora è certo che la famiglia, la popolazione cilentana, quella di Perdifumo in particolare e la polizia di stato hanno creduto e testimoniato di una sua presenza in quella regione.
La malattia di Majorana: per lei è la sindrome di Asperger, una variante dell’autismo, ma il medico Giovanni Forte pensa ad una malattia organica, la tisi. Che ne pensa? E come spiega la presenza stabile di un’infermiera nella vita di Majorana?
E’ difficile per me spiegare che la sindrome di Asperger non è una malattia di per sé. Nella griglia dell’autismo, ove tutto il genere umano trova la sua collocazione, la SA indica il grado di “diversità”, e non di difformità, in cui un Asperger si colloca con le sue caratteristiche rispetto agli altri. Insomma non si muore di SA ma si vive con la SA in modo diverso. Ettore, come ci dicevamo con il dottor Forte, è molto probabile che sia morto non di morte naturale, forse di tubercolosi dovuta alla sua costituzione fisica debole e troppo trascurata negli ultimi mesi. Ma, ritornando al solito adagio, la tubercolosi con in più l’omosessualità eleva alla massima potenza la difesa della riservatezza e la disposizione al nascondimento.
L’infermiera?
Con l’infermiera si torna, invece, al capitolo dei fraintendimenti e delle notizie scorrette. Ettore nomina una sola volta l’infermiera come dispensatrice di indirizzi di pensione; nulla più. Sono gli altri che la citano e la interrogano, ma non le danno un nome o un ruolo. Troppo poco per parlare di una presenza stabile di un’infermiera nella vita di Ettore. Io ipotizzo la presenza di un’ infermiera dal quadro generale, dall’incompletezza delle informazioni che i familiari di Ettore danno della sua salute e da tanti altri indizi, come quello, per esempio, che alcune delle lettere alla madre – di cui sono al corrente perché le ho lette, ma senza memorizzarle perché le ho credute, erroneamente, sempre reperibili, e in cui c’erano accenni alla sua salute – attualmente non sono a disposizione degli studiosi. Ma è sopratutto da un mio rimuginare che viene questa certezza di una sua malattia, tubercolosi o che altro sia stata, (non sto parlando dell’infermiera che è solo un accessorio), e non da prove certe.
Lei ha avuto accesso ai documenti della famiglia dal 1962, di che documenti si tratta e dove si trovano?
I documenti di Ettore, lettere in arrivo o in partenza come gli scritti scientifici erano, oserei dire, completi; le sottrazioni creavano dei vuoti inequivocabili nella regolarità della vita di Ettore di cui ci si accorgeva facilmente e quando ne parlavo con gli zii non erano nascosti ma apertamente dichiarati come dovuti a riservatezza. Ora molto è stato reso pubblico, soprattutto quelli scientifici, che però si stanno ancora studiando, quelli privati di pubblica consultazione sono molto di meno di quelli da me visti nei primi Anni Sessanta, rinvio al mio libro per un’esposizione più chiara, ma sono sicuro che non sono stati distrutti o perduti ma solo sparsi tra gli eredi in dissidio sulla loro divisione ed utilizzazione che ne complica la loro riemersione. Sarà, quindi, più difficile e più lento, ma si riuscirà a far luce sulla vicenda da fonti e fronti diversi da quello familiare. Devo ricordare che a me non interessa di per sé il caso della scomparsa e, spero sia evidente dal libro che la mia riflessione è volta a comprendere le mie origini e i miei antenati.
Chi oggi dei parenti di Majorana rimasti in vita potrebbe conoscere la verità?
Non c’è nessuno, secondo me, in grado di dare una ricostruzione completa e ragionata della scomparsa. Siamo in molti a detenere grumi di verità, più o meno consistenti. Ma è difficile che ci si possa mettere insieme per arrivare ad una verità condivisa. La versione definitiva verrà facendo ricerche su molti fronti e diverse fonti, tra cui importantissime quelle provenienti dalla famiglia.
Perché a un certo punto nel libro, quasi scoraggiato, afferma che soltanto quando saranno resi pubblici gli archivi di Pio XII si potrà sapere la verità?
In realtà dico una cosa inesatta e approfitto per correggermi. In seguito alle pressanti richieste della famiglia di Ettore, il Vaticano rispose con una lettera ancora in possesso della famiglia, ma non resa mai pubblica, ed informalmente attraverso il cardinale Camillo Caccia Dominioni, di cui mio padre era il gentiluomo d’onore. Le carte della Segreteria di Stato Vaticana non contenevano risposte precise sulla scomparsa, ma solo la ricca documentazione delle ricerche che attraverso la Santa Sede erano state fatte presso le Congregazioni religiose: molte erano state interpellate, ma non tutte avevano risposto. Immagino che le risposte potranno dare indicazioni importanti sulla traiettoria di quella scomparsa, difficilmente una risposta sulla sua fine. Ma conoscendo alcune tappe del suo peregrinare porterebbe ad eliminare molte delle ipotesi farlocche ancora in circolazione.
di Romano Pitaro
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