Intervista a Giovanni Forte. Che fine ha fatto Ettore Majorana? Persino Mussolini s’interessò di lui. E ordinò, invano, che fosse rintracciato. Un incessante clamore, la scomparsa, nel marzo del 1938, del trentunenne ordinario di Fisica all’Università di Napoli. Da Palermo verso Napoli sul traghetto: un viaggio verso il nulla. Dopo settantadue anni, per la prima volta, la risposta alla domanda sulla sorte di Majorana non è: nessuno lo sa. O congetturale (s’è ritirato nella Certosa di Serra San Bruno in Calabria, stufo di un mondo che preparava la bomba atomica; in Germania, a disposizione del Terzo Reich; in Argentina dopo il crollo nazista con tanto di foto che lo ritrae assieme al criminale Eichmann). E’, invece, una risposta esaustiva, o quasi: “Fu ritrovato dalla famiglia poco dopo la sua scomparsa, ma lui non volle saperne di ritornare. Nell’estate del ’39 morì in Calabria. Secondo le mie supposizioni era affetto da una malattia organica, di cui la famiglia era a conoscenza, la tisi forse? Si è rifugiato a Chiaravalle, in provincia di Catanzaro, nel Convento dei Cappuccini. In un luogo, tra l’altro, dove sorgeva uno dei centri più accreditati in Italia nella lotta alla ‘tbc’: il Sanatorio San Giovanni Bosco fondato nel 1930 dal professor Mario Ceravolo (1895-1973) che proprio in quella struttura mise a punto i migliori sistemi per la cura della tubercolosi”. A parlare è un medico catanzarese di 64 anni: Giovanni Forte, trentacinque anni di carriera integerrima in ospedale e un appassionato e mai trascurato interesse, che meticolosamente coltiva “almeno da vent’anni”, sul mistero della scomparsa di quel fisico geniale che fu Ettore Majorana: nato a Catania il 5 agosto 1906, nipote di un illustre fisico Quirino Majorana, laureato in Fisica teorica con Enrico Fermi. All’istituto di via Panisperna a Roma si occupava di sperimentazione nucleare e di meccanica quantistica relativistica, con particolari applicazioni nellateoria dei neutrini, abilissimo nel calcolo matematico. Il dottor Forte è scrupoloso, fino all’inverosimile. Ma ad un certo punto, pur premettendo che le sue ricerche debbono ancora essere verificate, cala sul tavolo le sue carte. E afferma: “Dopo più di 70 anni è tempo che la famiglia Majorana dica tutto quello che sa, e se ci sono archivi in Vaticano da spulciare per conoscere la verità questo è il tempo giusto. Grazie anche al nuovo corso impresso da Papa Francesco”. Ma andiamo con ordine. Incontro il dottor Giovanni Forte nella sua bella casa al centro di Catanzaro.
Da dove cominciamo?
E’ uscito recentemente un libro su Majorana. Lo scrive un membro della famiglia Majorana, Stefano Roncoroni, figlio di una cugina in primo grado di Ettore: “Ettore Majorana, lo scomparso e la decisione irrevocabile”. Il libro è impostato come commento ad uno scritto dello zio di Ettore: Giuseppe Majorana, dal titolo “Ettore Majorana, lo scomparso”, iniziato nella tarda estate del 1939, ma rimasto incompiuto e inedito per la morte dell’autore a dicembre del 1940. Questo libro è anche l’occasione per ampie digressioni sul momento storico, sulla Università con il tumultuoso progresso della fisica nucleare di quegli anni, nonché ovviamente sul famoso gruppo dei “ragazzi di via Panisperna”, giovani fisici che in tempi diversi ne avrebbero segnato indelebilmente lo sviluppo e con i quali Ettore Majorana era in un rapporto ambivalente di amicalità/contrasto. Un altro tema che emerge prepotentemente dal libro è la descrizione della famiglia Majorana, una famiglia quasi come un clan, con regole interne rigidissime e attentissima a tutelare il suo buon nome ed a proiettare ogni suo componente verso mete prestigiose in ogni campo, preferibilmente nell’Università, nell’avvocatura, nella politica.
Perché si sofferma cosi tanto sulla “natura” della famiglia Majorana?
Perché questo tratto “familiare” finisce per essere prevalente su tutto e alla fine è condizionante tutta la vicenda del “mistero” Majorana.
Ma quali sono le novità del libro di Roncoroni?
E’ presto detto: secondo Roncoroni qualche tempo dopo la scomparsa, i familiari riuscirono a ritrovare Ettore, che però avrebbe confermato la sua irrevocabile volontà di non rientrare più. L’altra notizia che si apprende è la caparbia decisione della famiglia di non far sapere nulla del suo ritrovamento e di continuare a mantenere il segreto della scomparsa, come se le notizie su Ettore si fossero fermate al 25 Marzo 1938, anche dopo aver appreso della sua morte, avvenuta nella tarda estate del 1939. Questa reticenza sarebbe stata usata perfino all’interno della famiglia stessa, ove c’era chi sapeva, pochissimi, e chi continuava a essere tenuto all’oscuro.
E’ tutto chiarito, dunque, se le cose stanno così?
Vengono certamente azzerate tutte le ipotesi sulla scomparsa di Majorana, ma è tutto da scoprire il resto. Perché il silenzio custodito così gelosamente? Dov’è morto, dove si è rintanato in quell’anno Ettore Majorana? Colpisce e pone interrogativi il comportamento dei familiari più stretti; per esempio quando Roncoroni chiede allo zio Salvatore di dirgli perché non avessero mai detto nulla sul ritrovamento di Ettore, a lui comunicato da suo padre Fausto Roncoroni, lo zio risponde con un’altra domanda: “Come te l’ha detto?”, aggiungendo “dell’altro ma senza chiarire un bel niente, segno che tuttora l’imposizione a tacere sulla vicenda sprigiona effetti… “
Quali sono le deduzione che lei trae?
E’ evidente che nell’autore prevale la “pietas” per la difficile scelta di Ettore, che manca sia nella lettura di Leonardo Sciascia della scomparsa, attribuita al desiderio del fisico di non farsi corresponsabile dei tremendi sviluppi applicativi delle forze nucleari da lui già preavvertiti, per cui si sarebbe ritirato in un cenobio, sia nella famiglia. La quale, usa a prendere in maniera condivisa tutte le decisioni riguardanti ogni membro, si sarebbe trovata spiazzata di fronte alla repentina ed imprevista decisione di Ettore, che abbandonava un piedistallo di grande lustro per la stessa famiglia. Ricordo che ad Ettore era stata conferita dal Ministro la Cattedra Universitaria fuori concorso, “per l’alta fama di singolare perizia cui è pervenuto nel campo degli studi di Fisica teorica”. Nel libro di Roncoroni efficacemente si legge: “Gli rimproveravano, in sostanza, d’aver commesso qualcosa di inconcepibile per le regole di famiglia, e di aver agito con una durezza d’animo nei confronti dei suoi congiunti che era stata considerata gratuita per quanto era stata improvvisa…”. E ancora: “…Capii che Ettore aveva fatto qualcosa di molto grave che l’aveva costretto a sparire. Ma mi spiegarono che era stata la sua scomparsa a non poter essere perdonata, avendo tradito la stima e la fiducia dello zio. Quirino aveva avuto solo tre figlie femmine, una disgrazia in casa Majorana. Ettore era come un figlio per papà, che s’era adoperato tantissimo per convincerlo a partecipare al concorso: lui lo vince e dopo poco rinuncia all’insegnamento. Questo papà non gliel’ha perdonato.” In realtà Ettore era stato nominato a Napoli per chiara fama e fuori concorso, in seguito alla sua domanda a concorrere per una Cattedra all’Università di Palermo. Su tutto, anche sul dramma personale di Ettore, prevalgono le regole della famiglia, per cui ogni decisione e ogni scelta devono essere condivise e avallate da chi in quel momento detiene la leadership.
Ma qual è la risposta di Roncoroni alla domanda che dal 1938 ci poniamo tutti: perché se n’è andato Majorana?
A questa domanda non dà una risposta esplicita. In tutto il libro, invece, è un susseguirsi di mezze parole, di interrogativi, di detto e non detto, di accenni anche familiari ad una “stranezza” del carattere di Ettore, con tratti di misantropia e, a volte, riferimenti a una certa fragilità verso le pressioni ambientali, che in verità mal si concilia con il suo modo di fare schietto e spesso da bastian contrario, tanto da avergli procurato il soprannome di “Grande Inquisitore” tra i “ragazzi di via Panisperna”.
Può darsi che fosse affetto da una malattia? La stranezza del carattere di cui parla anche Sciascia magari era dovuta ad un disagio psichico. Gianni Amelio, l’altro giorno su Repubblica, ipotizza l’omosessualità di Majorana…
Capisco cosa vuole dire. Roncoroni indica la possibilità che Ettore fosse affetto dalla sindrome di Asperger (la malattia, descritta dal dottor Hans Asperger nel 1944, fu riconosciuta come quadro autonomo nell’ambito dell’autismo negli ultimi anni del Novecento, ndr) e si sofferma sullo sguardo sfuggente di Majorana, che rifiuta la camera da ripresa e che sarebbe un sintomo della sindrome di Asperger. Cita, inoltre, l’aneddoto di Ettore bambino che esegue dei calcoli numerici a richiesta dei suoi familiari stando sotto il tavolo da pranzo e una serie di disagi: non poteva essere distolto dai suoi studi, non era in grado di stabilire relazioni sociali serie e continuate. Sostenendo, al contempo, che questi atteggiamenti di Majorana si accompagnavano a problemi di stomaco, stanchezza o nevrastenia. Però, in sostanza, Roncoroni, cerca di avvalorare la sindrome di Asperger.
Lei da medico, invece, non condivide questa conclusione?
Nel libro non mancano ulteriori cenni a comportamenti di Ettore che potrebbero rientrare nella sindrome di Asperger, ma tutti i segni riferiti possono tranquillamente essere spiegati come semplici atteggiamenti caratteriali, specie di un timido. Segni caratteriali e non necessariamente patologici. Tra l’altro, Ettore viaggiava spesso e volentieri in Italia e all’estero, in Germania, in Danimarca, manteneva una grande amicizia con Gastone Piquè, oltre a tutta una serie di rapporti con gite in auto e frequentazioni sistematiche ai caffè. Tutte cose che non si conciliano con un soggetto affetto da autismo, sia pure nella variante Asperger. E poi questi soggetti hanno bisogno di una “persona guida”, presentano spesso anomalie di locomozione. Tutte cose di cui non si ha notizia in Ettore Majorana.
Perché secondo lei Stefano Roncoroni insiste sull’ Asperger?
Perché anche lui usa, inconsapevolmente forse, un linguaggio finalizzato a “disinformare o depistare”, come fa Giuseppe Majorana, l’autore del testo base su cui il libro è incentrato (pagina 109 “…Giuseppe scrive per disinformare e depistare consapevolmente… Era uno dei pochi Majorana a detenere grumi di verità a riguardo dell’iniziativa di Ettore di volersi ritirare dal mondo, dei quali, in questo suo scritto, dissemina piccole tracce inequivocabili, come il percorso segnato dalle briciole di pane lasciate cadere da Pollicino”). A meno che non voglia divertirsi con i lettori, quasi a indurli a pervenire a conclusioni che lui non si sente di esplicitare, annegando qua e là nelle sue tantissime pagine ricche di digressioni, commenti, note, alcune affermazioni abbastanza in chiaro, ma ad una attenta analisi non così convincenti. Quasi per dire, io dico così, ma, caro lettore, se soppesi attentamente, intuirai che non è proprio così, anche se non è del tutto inesatto. Seminando in qualche altra pagina del testo o delle note, frasi o notiziole buttate lì, che messe insieme si rafforzano o confliggono fra di loro e quindi ti sollecitano a prenderle di più in considerazione. Per esempio tutta la questione dell’infermiera.
Che c’entra l’infermiera e quale infermiera nella vicenda dello lo scienziato svanito nel nulla?
E’ sempre tutto collegato alla malattia di Majorana, che non era certo una malattia psichica e neppure episodica. Roncoroni, a pagina 240 del libro, riporta: “L’infermiera ignota (nota 114), senza volto, nome e indirizzo, dei verbali di polizia (cfr. p. 372) e delle testimonianze della famiglia, quella figura che si perde nell’affollata umanità di Napoli nello spazio tra Santa Lucia e la Galleria vicino al Diurno Cobianchi, forse un’impiegata di quell’albergo, nella trascrizione di Giuseppe diventa un infermiere”. E poi, a pag. 338, alla nota 114 cui rimanda, invece si legge: “Ettore Majorana, lettera alla madre del 22 gennaio 1938: “…Ho buoni indirizzi per pensioni fornitimi dall’infermiera…”. Questa è l’unica volta in cui l’infermiera è nominata in uno scritto di Ettore. Ma per Roncoroni “L’infermiera è un’invenzione di Ettore cui né i parenti né la polizia hanno saputo dare una ragione oltre che un nome e un cognome”. A pagina 372, cui rimanda ancora l’autore, è riportato il “Verbale di polizia di Salvatore Majorana del 18 aprile 1938”, che a un certo punto così recita: “…Poi ai primi di aprile è stato visto – e riconosciuto – a Napoli fra il Palazzo Reale e la Galleria mentre veniva su da Santa Lucia, da una infermiera che lo conosceva e che ha anche visto ed indovinato il colore dell’abito…”. Nella lettera che Salvatore Majorana invia da Roma a Francesco, di Giuseppe, il 17 Aprile 1938 (giorno di Pasqua), dice testualmente: “…E ciò conferma la testimonianza dell’infermiera che l’avrebbe visto i primi di Aprile e che è pronta a giocare la testa per la verità di sua testimonianza…”. Infine, nelle sue conclusioni, a pag. 283, così si rivolge in un ipotetico colloquio al defunto Giuseppe Majorana, autore dell’articolo oggetto del libro: “…proprio tu non hai chiesto di cosa soffrisse tuo nipote, a cosa gli servisse, se gli serviva, un’infermiera a Napoli?”.
Da tutto ciò, cosa ne deduce?
Ma come! A pag. 240 era “un’impiegata” d’albergo, poi forse “un infermiere”, quasi a voler trasformare in indeterminato un dato sensibile; nella nota addirittura è “un’invenzione di Ettore” e poi rimprovera al defunto Giuseppe di non aver approfondito sull’”infermiera”? Sembrerebbe, da una parte, che Roncoroni voglia svalutare la figura della infermiera, in modo che il lettore non si faccia troppe domande e, dall’altra, che lui stesso, sempre precisissimo, costruisca questa contraddizione, sia pure affogandola nelle mille informazioni del libro, quasi per fornire un indizio a chi se ne accorgesse.
Perché farebbe tutto questo Roncoroni?
Perché neanche lui intende rompere fino in fondo il patto familiare al silenzio, ma questo rimane il punto nodale su cui indagare. Ettore Majorana scrive con naturalezza alla madre il 22/1/1938: “…indirizzi per pensioni fornitimi dall’infermiera…” Perché Ettore scrive “della” infermiera e non di “una” infermiera? Una infermiera poteva essere stata conosciuta per caso, per mille motivi; “la” infermiera implica, sia per Ettore che scrive sia per la madre che legge, che i due sanno della presenza di lei e del perché l’infermiera ha a che fare con Ettore. Una invenzione del genere non avrebbe determinato una preoccupazione, una inquietudine alla madre lontana di un giovane trentunenne, in una famiglia in cui ogni piccolo fatto doveva essere condiviso? E dove sono queste reazioni, queste domande? E’ evidente che, allorché Ettore scrive alla madre “della” infermiera, sa di riferirsi a cosa nota ad entrambi. Tra l’altro, anche Salvatore, nella lettera a Francesco, quindi in famiglia, scrive della “testimonianza dell’infermiera”, mentre lo stesso Salvatore, in ambito esterno alla famiglia (nel verbale delle sue dichiarazioni alla polizia del 18 aprile 1938), dice “…da una infermiera che lo conosceva…”. In realtà, in famiglia si sapeva bene che Ettore aveva per qualche motivo a che fare con l’infermiera, notizia che invece si cercava di tenere nascosta all’esterno.
Insomma, Majorana aveva un’infermiera che lo seguiva costantemente. Bene. Resta da capire di che malattia soffrisse…
Il contesto deporrebbe per una malattia non acuta, influenza, tifo, polmonite. La presenza di un’infermiera regolarmente presente nella vita di Ettore, ci fa pensare a qualche terapia iniettiva, visto che la terapia orale può essere assunta direttamente dal paziente. Inoltre, una malattia acuta interferirebbe con l’attività accademica, mentre le notizie sono di una regolare attività nelle lezioni e nella frequenza all’Università. Si deve essere trattato di una patologia cronica, che necessitava di cure regolari, una malattia nota a sua madre e alla famiglia.
Lei qui si discosta inesorabilmente dalla tesi di Roncoroni. Vogliamo spiegare meglio?
Roncoroni si sofferma sulla suggestiva proposta della sindrome di Asperger. Rimprovera i familiari di voler negare problemi di salute di Ettore (“… continuavano a dare una versione positiva della salute fisica e psicologica di Ettore…”) e instilla il dubbio che la salute non dovesse andare poi tanto bene. Il riferimento più lungo sulla salute di Ettore si trova a pag 201 del libro. Il 5 giugno 1938, dopo la scomparsa, Salvatore Majorana scrive : “…Come sai, la nostra persuasione è che Ettore vive isolato e forse ritirato…perché a questo lo spingono i reali bisogni della sua malattia nervosa…”; e ancora: “Del resto anche la malattia è da escludersi perché se ci sono segni precedenti di nevrastenia, non ci sono quelli di melanconia.” Preciso che nel linguaggio medico dell’epoca, il termine “nevrastenia” non ha il significato di estrema propensione all’ira e, in ultima analisi, a comportamenti potenzialmente violenti, come spesso si intende oggi, bensì ad “astenia” psichica, ad atteggiamenti tra il depresso, il pessimista, l’ipocondriaco…
Che conclusioni trae?
Beh! Se le cose stanno come adombrato nel libro, non si capisce perché se Ettore il 25 Marzo 1938 fugge, in quanto non regge la pressione psichica dell’Università, del rapporto con gli studenti e con i colleghi, come mai nell’estate del 1939, ad appena 33 anni compiuti, muore? Non sarà morto per la “nevrastenia” o per la sindrome di Asperger. La sua morte e la questione dell’infermiera cambiano la prospettiva.
Come può essere morto un giovane di 33 anni?
Suicidio, l’uccisione, un incidente, una malattia. Ricordo anche che Roncoroni riporta lo scritto dei parenti di successiva generazione (Ettore Majorana jr. e Fabio Schultze) che parlano di “…un familiare tragicamente scomparso…”. Ebbene, il “tragicamente” può riferirsi sia alla modalità della morte, in genere violenta, sia alla morte di un giovane, per di più lanciato a livelli altissimi nella ricerca scientifica. Pertanto quell’aggettivo non ci permette di sciogliere l’enigma.
Suicidio?
No. Se quel 25 marzo del 1938 Ettore aveva veramente intenzione di suicidarsi, perché ritirò una cospicua somma di denaro dalla banca? E perché va a Palermo? Perché ritorna? Perché poi aspetterebbe quasi un anno e mezzo prima di ammazzarsi? Molto improbabile. E poi, lo stesso Roncoroni fa una affermazione lapidaria: “Ettore non si suicidò e non tornò mai più a casa…”. Ormai in famiglia è assodato che il suicidio non ci fu.
Fu assassinato? Perché no?
Certo, le sue scoperte o intuizioni, il clima di guerra imminente, l’ambiente scientifico internazionale, le implicazioni di spionaggio, guerre segrete, motivazioni ideologiche e ambizioni personali, possono anche rendere plausibile l’assassinio. Ma perché non fu ucciso subito? Se in pochi mesi fu ritrovato dalla famiglia, possibile che servizi segreti non fossero capaci di trovarlo ed eliminarlo? Possibile che abbiano impiegato un anno e mezzo per trovarlo? Molto improbabile.
Perché esclude l’incidente?
L’incidente è di per sé imprevedibile. Ma allora perché mantenere il segreto anche dopo la morte? E comunque non spiegherebbe il motivo della fuga.
E siamo alla malattia, con la stessa domanda: quale?
I riferimenti alla salute di Ettore, sempre molto vaghi, ci dicono solo di disturbi digestivi e di “nevrastenia”, eppure nel foglio dello stato matricolare ministeriale, da lui stesso compilato, alla voce “salute” scrive: “alquanto cagionevole”. Perché? A cosa si riferiva? Inoltre c’è la questione dell’infermiera… Infine, c’è il dato che Ettore era un forte fumatore. E’ risaputo che spesso scriveva sui pacchetti di sigarette, che aveva sempre in tasca, le intuizioni che gli balenavano o le formule con cui risolveva quesiti e problemi, per poi inevitabilmente cestinarli, dopo aver illustrato agli altri i risultati che vi erano scritti.
Ebbene, dottor Forte, spari la sua conclusione!
Ettore Majorana era affetto da malattia, organica e non psichica. Già a gennaio del ’38, quando scrive alla madre “della infermiera”. Una malattia organica nota alla famiglia, ma, come succedeva a quei tempi, tenuta nascosta al mondo esterno per un senso di pudore estremo. Una malattia aggravatasi progressivamente e che lo portò alla morte poco più di un anno dopo la fuga. Ettore, consapevole delle sue serie condizioni di salute, decise di sottrarsi al mondo, ai colleghi, agli studenti, a tutti, per vivere dignitosamente e riservatamente il tempo che gli rimaneva. I familiari non condivisero la sua fuga, preferendo che lui continuasse a presidiare il piedistallo raggiunto che era fonte di onore grandissimo per tutti loro.
Quale malattia?
In assenza di dati clinici certi, rimarrebbe quasi una esercitazione di fantasia. Tra l’altro, i vaghi disturbi a lui attribuiti, da quelli digestivi a quelli nervosi e all’astenia, sono perfettamente compatibili con tutte le gravi malattie in stato avanzato. Tuttavia, da un punto di vista statistico, in quegli anni, una delle principali cause di morte per malattia era la tubercolosi. Soprattutto nelle regioni meridionali, si faceva di tutto per mantenere il segreto e non far uscire fuori dall’ambito strettamente familiare informazioni del genere. Quasi come se ammalarsi di quella malattia fosse un disonore. E potrebbe starci anche con la giovane età del soggetto, una costituzione fisica di uomo alto e molto magro e il fatto di essere forte fumatore. Ma, ripeto, sono solo considerazioni induttive, anche se verosimili, non essendo documentati sintomi o dati specifici in merito che riguardassero Ettore Majorana.
Resta da capire, visto che Roncoroni scrive che Majorana si rifugiò in un vallone boscoso della provincia di Catanzaro e che Sciascia, per scrivere il suo memorabile “La scomparsa di Majorana”, andò personalmente a chiedere notizie a Serra San Bruno, perché lei esclude che il luogo prescelto sia stata la Certosa di Brunone di Colonia?
Intanto l’ipotesi “Certosa di Serra San Bruno” nasce da un’idea, quella della fuga dal mondo di questo genio della fisica, che aveva già intuito le terribili possibilità applicative delle scoperte nucleari di quegli anni e delle quali non voleva sentirsi corresponsabile. Per cui si rifugia in un luogo, dove la vita di preghiera e di contemplazione redime o addirittura modifica gli stessi processi storici. E’ l’ipotesi verso cui propende Sciascia. Peraltro, si pone in quel filone di ipotesi, voci, sussurri che avrebbero voluto nella Certosa il pilota che sganciò la bomba atomica su Hiroshima, anche per le notizie che spesso sono circolate a Serra S. Bruno della presenza fra i monaci di uomini di alto valore umano, artistico o scientifico che, a un certo punto della vita, hanno lasciato tutto, “il mondo”, per ritirarsi non tanto “fuori” dal mondo, bensì nel cuore delle cose, della vita, della morte, della storia. La Certosa quindi come luogo di espiazione o, meglio, di rivisitazione di tutto nella prospettiva dell’eternità.
Dove, dunque?
Se, invece, Majorana, affetto da una malattia che si sta aggravando tanto da fargli presentire la prossima fine, decide di scomparire al mondo deve andare in un posto che, per quanto riservato e magari anche spiritualmente significativo, gli consenta di poter essere assistito adeguatamente. E non è la Certosa il luogo più adatto. In Certosa vige la clausura, la giornata dei monaci è strutturata rigorosamente nei tempi della preghiera anche notturna, il lavoro manuale, la contemplazione e non c’è spazio per una sia pur minima attività di assistenza per ospiti esterni. Non è così invece in altre comunità monastiche.
Le sue ricerche la inducono a suggerire un altro luogo della provincia di Catanzaro?
Roncoroni, nel suo libro e nelle interviste che ha rilasciato, fa due affermazioni importanti, sulla seconda delle quali non dà nessuna spiegazione: Ettore si rifugiò “in un vallone boscoso della provincia di Catanzaro, ospite di pastori”; “…quando il Vaticano aprirà gli archivi relativi al pontificato di Pio XII sarà fatta luce completa sul caso”. Per usare un’espressione giuridica, questo “combinato disposto” sembrerebbe portare in una direzione piuttosto precisa…
Vuole dire che se la fuga improvvisa di un giovane trentenne, durata circa un anno e mezzo e terminata con la morte può essere spiegata con la consultazione degli archivi vaticani, significa che è estremamente probabile che Majorana sia stato ospitato in un ambiente religioso. Cioè in un convento?
Esatto. E questo convento deve essere in provincia di Catanzaro.
Escludendo la Certosa di Serra San Bruno, quali erano le realtà conventuali, all’epoca, in provincia di Catanzaro?
Su tutte spiccava la presenza dei Cappuccini, che, presenti in tante zone della Calabria, avevano un convento molto importante e ben strutturato, con numerosi monaci in una cittadina delle boscose Serre catanzaresi: Chiaravalle. E’ estremamente suggestivo come questo nome “Chiaravalle” sia così vicino e assonante con quel termine usato dalla famiglia “un vallone boscoso”. Ancora una volta si darebbe un indizio, ma ambiguo, per poter continuare a dire e non dire, lasciando all’intuito del lettore la rilevanza dell’indizio. Tra l’altro quel “ospite di pastori” può ancora intendersi nella stessa modalità ambigua: forse che i monaci cappuccini non sono anche “pastori di anime”? E loro non sono di clausura, hanno una regola ben diversa dai certosini che non crea grandi problemi nell’ assistere un ospite ammalato. Certo, in questo sarebbe stato sicuramente decisivo il chiamarsi Ettore Majorana, con tutto ciò che comportava in termini di importanza e di relazioni quel cognome. Al contrario, se così non fosse stato, come sarebbe finito Majorana in Calabria? Quali conoscenze poteva avere uno come lui tra i pastori di greggi dei boschi sperduti di una regione fuori mano come la Calabria? E’ un ammalato in fase avanzata; non regge l’idea che, decidendo di ritirarsi dal mondo, potesse pensare di rifugiarsi in qualche stalla nei boschi dove difficilmente sarebbe sopravvissuto più di qualche giorno…
di Romano Pitaro