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La memoria corta, la Germania, l’austerità, il nazismo

Il 27 gennaio era la “giornata della memoria”. Come tutti gli anni, tante parole sono state spese per ricordare gli orrori della shoa. Forse, però, sarebbe stato più utile – se veramente lo scopo della memoria è evitare di ripetere gli errori/orrori del passato – ricordare le ragioni che hanno portato all’ascesa di Hitler in Germania. È opinione comune – anche in Germania – che sia stata l’iperinflazione degli anni venti a spianare la strada al nazismo, e che questo dovrebbe essere un monito per tutti coloro che potrebbero essere tentati dall’idea di risolvere le crisi ricorrendo all’aiuto della banca centrale. Da cui la nota – e, secondo questa lettura, comprensibile – ortodossia anti-inflazionistica dei tedeschi. Ma la verità è ben diversa. In risposta all’iperinflazione degli anni venti, al crash economico d’oltreoceano e alle pressioni dei paesi creditori, negli anni trenta la Germania del cancelliere Brüning perseguì una politica monetaria e fiscale iper-restrittiva. In una parola: haushalt, austerità. Le conseguenze per il paese furono devastanti: la Germania sprofondò in una gravissima deflazione, e la disoccupazione schizzò alle stelle (vi ricorda qualcosa?). Secondo molti storici, fu proprio questa miscela letale di salari bassi e disoccupazione di massa – una conseguenza diretta delle politiche deflazionistiche del cancelliere Brüning – a spianare la strada a Hitler, e non l’iperinflazione degli anni venti. E il seguente grafico, che mostra l’inquietante correlazione tra il tasso di disoccupazione tedesco e il crescente consenso elettorale del Partito Nazionalsocialista – che passò dal 2,6% dei voti del maggio del 1928 al 34,7% del luglio 1932 –, parrebbe confermarlo.

 

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Come ha dichiarato di recente Ewald Nowotny, governatore della banca centrale austriaca, fu proprio “la scelta di concentrarsi esclusivamente sulle politica di austerità che negli anni venti e trenta del secolo scorso portò alla disoccupazione di massa, alla rottura dei sistemi democratici e infine alla catastrofe del nazismo”. È sconcertante, dunque, che proprio i tedeschi – direttamente per mezzo degli organi istituzionali europei e indirettamente per mezzo della loro influenza all’interno della BCE – stiano oggi imponendo esattamente lo stesso tipo di politiche ai paesi della periferia. Come ormai sostengono in molti, senza un drastico cambio di rotta l’eurozona – con un tasso d’inflazione medio inferiore all’1% (bel lontano dall’obiettivo della BCE del “poco meno del 2%”), e vicino allo zero in molti paesi della periferia – rischia seriamente di cadere in una spirale deflazionistica dalle conseguenze imprevedibili ma potenzialmente catastrofiche, sia in termini economici che politici. Come sosteniamo da tempo su questo blog, la BCE avrebbe tutti gli strumenti necessari per far ripartire l’inflazione, per esempio monetizzando una parte del debito pubblico dei paesi periferia, riducendo così le spese per interesse e permettendo ai governi dei suddetti paesi di perseguire politiche fiscali espansive (nel caso dell’Italia, che registra un avanzo primario, anche all’interno dei limiti del Fiscal Compact). Questo non solo ridarebbe fiato alle economie strangolate della periferia ma renderebbe anche più sostenibili i loro debiti pubblici. Come evidenziato in un recente studio del Bruegel Institute, per paesi come la Spagna e l’Italia un tasso d’inflazione più alto dell’1% avrebbe un’incidenza positiva enorme sul loro rapporto debito-PIL (vedi la seguente figura).

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Come dice Zsolt Darvas del Bruegel, un tasso d’inflazione più alto non risolverebbe di colpo tutti i problemi dell’eurozona, ma senz’altro renderebbe l’attuale processo di aggiustamento “molto meno doloroso”. Non solo per l’Europa, ma per tutta l’economia globale, che risente pesantemente del crollo della domanda aggregata nel continente. Non sorprende dunque che ormai fiocchino dalle fonti più disparate – dall’Economist al Wall Street Journal, dalTelegraph al Fondo monetario internazionale – appelli alla BCE affinché intervenga per arginare l’innescarsi di una spirale deflazionistica nel continente. Ovviamente, sappiamo bene – come non perde occasione di ricordarci Draghi, al punto che cominciamo a pensare che abbia un po’ la coda di paglia – che i trattati europei vietano il “monetary financing”, il finanziamento diretto degli stati. Ma i trattati esistono per essere cambiati. Non a caso undraft report della Commissione Affari Economici e Monetari preparato l’anno scorso da Gianni Pittella e dal suo staff – successivamente bocciato dai tedeschi – proponeva proprio di rivedere lo statuto della BCE per permettere alla banca centrale europea di portare avanti politiche di “overt monetary financing” – finanziamento diretto dei del debito pubblico degli stati membri –, e per aggiungere all’obiettivo della stabilità monetaria quello della piena occupazione.

Non possiamo sapere come sarebbe andata la storia se la Germania, negli anni trenta, avesse seguito l’esempio dei paesi dell’area della sterlina (sterling bloc), che nel 1931 uscirono dalgold standard e poterono così perseguirono politiche esplicitamente espansionistiche-inflazionistiche. Ma il seguente grafico – che mette a confronto l’andamento del tasso di disoccupazione inglese e quello tedesco a partire dall’anno in cui il Regno Unito abbandonò ilgold standard – fa supporre che probabilmente sarebbe andata molto diversamente.

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Quest’altro grafico, invece, mette a confronto l’andamento del PIL dei paesi dello sterling bloc (linea grigia) – che, ricordiamo, iniziarono a svalutare a partire dal 1931 – e quello dei paesi del gold bloc (linea gialla), tra cui la Germania, tra il 1929 e il 1938. Anch’esso lascia poco spazio all’immaginazione.

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E la linea rossa?, vi starete chiedendo. Quella rappresenta l’andamento del PIL dell’eurozona tra il 2007 e il 2015. Come si può notare, il trend dell’eurozona rispecchia molto da vicino quello del gold bloc – e non a caso, visto che stiamo seguendo lo stesso tipo di politiche deflazionistiche.

Non possiamo cambiare la storia, ma possiamo evitare che si ripeta. È vero: oggi non rischiamo l’ascesa di un nuovo Hitler. Ma il rischio di un prolungato periodo di regressione economica, politica e sociale, e di una recrudescenza di movimenti fascisti e reazionari (vedi la Grecia) – con conseguente disgregazione del processo di integrazione europea –, c’è, ed è reale. Anzi, si potrebbe dire che è già in corso. Siamo ancora in tempo per cambiare traiettoria. Ma dobbiamo agire presto. Sarebbe veramente imperdonabile se la Germania commettesse lo stesso errore di ottant’anni fa. Come ha dichiarato nel 2012 l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer:

Per due volte, nel ventesimo secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l’ordine europeo. Poi ha convinto l’Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l’integrazione d’Europa, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione. Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo.

di Thomas Fazi

Scritto da Redazione

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