Tra i tanti motivi per cui l’Europa – e in particolare la periferia – fatica a uscire dalla crisi, ce n’è uno che forse spicca su tutti: ossia, il fatto che a molti (inclusi, viene il sospetto, i nostri governanti) non è ancora chiaro come ci siamo entrati. Ci si rende conto di ciò ogniqualvolta si cerchi di ragionare sulle responsabilità della Germania nel perpetuarsi e aggravarsi della crisi – cosa che su questo blog facciamo con una certa solerzia, e non certo per pregiudizio anti-tedesco. In questi casi, a prescindere dalla validità delle proprie argomentazioni, è comune sentirsi rispondere: “Sì, avete ragione, la Germania potrebbe fare di più, ma bisogna pur capirli i tedeschi: hanno già sborsato tanti soldi per salvare le scalcagnate economie della periferia ed è normale che non se la sentino di sborsarne altri”. È infatti piuttosto diffusa l’idea secondo cui la Germania sarebbe giustificata a chiedere garanzie e sacrifici ai paesi della periferia – e a essere riluttante a fare ulteriori concessioni –, in quanto avrebbe già contribuito massicciamente ai “salvataggi” – o bail-out – di Grecia, Irlanda, Spagna, ecc. Insomma, anche la Germania, a suo modo, avrebbe pagato un conto piuttosto salato per via della crisi. Secondo questa lettura, la Germania potrebbe essere paragonata a una sorella maggiore severa, forse un po’ ottusa, ma comunque disposta ad aiutare i propri fratelli nel momento del bisogno. Ma è veramente così?
È noto come in seguito all’introduzione dell’euro la Germania abbia accumulato degli enormi avanzi (o surplus) commerciali, a scapito dei paesi della periferia, che invece hanno accumulato dei disavanzi (o deficit) senza precedenti. Non ci interessa qui entrare nel merito di come e perché questo sia accaduto (ne abbiamo già parlato altrove). Ai fini del nostro ragionamento, ci basta sapere che all’interno di un’area monetaria, il surplus di certi paesi corrisponde necessariamente al deficit di altri (se io ho un surplus nei tuoi confronti, tu non puoi averlo nei miei). I paesi che registrano un deficit della bilancia commerciale – ovvero che importano più di quanto esportano, il che vuol dire che spendono all’estero più di quanto incassino – ricorrono spesso a capitali esteri per finanziare i propri deficit. E infatti, tra il 2000 e il 2007, le banche della periferia hanno accumulato un’esposizione enorme nei confronti delle banche dei paesi core – e in particolare della Germania. Come spiega l’economista e banchiere Antonio Foglia sul Corriere della Sera di qualche giorno fa:
Dai primi anni 2000, la Germania accumula avanzi commerciali persistenti verso alcuni partner europei. Nell’ambito di un’unione monetaria, un paese esportatore netto, che consuma e investe meno di quanto produce, non può che accumulare passività finanziarie dei paesi importatori netti come pagamento ed essere quindi esportatore netto di capitali verso i paesi importatori di merci. Gli americani chiamano questa dinamica vendor-financing: ti vendo qualcosa ma te ne finanzio l’acquisto.
In sostanza la Germania, attraverso il suo settore finanziario, ha esportato enormi quantità di capitali verso i paesi della periferia, alimentando boom immobiliari in molti di essi (in particolare in Spagna e Irlanda) – e, soprattutto, permettendo ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti tedeschi. Per molti versi, “i tedeschi si sono autofinanziati il loro cosiddetto miracolo economico”, scrive l’economista americano Dan Alpert [1]. Una strategia non dissimile da quella adottata dalla Cina nei confronti degli Stati Uniti. Questo è un punto importante, perché evidenza un concetto di cui spesso ci si dimentica: ossia che per ogni paese (o banca o individuo) che si indebita troppo, ce n’è sempre un altro che presta troppo – creditori e debitori, insomma, condividono le stesse responsabilità. Nel 2008, allo scoppio della crisi dei subprime, il sistema bancario tedesco, a furia di erogare credito che andava anche ad “autofinanziare” le esportazioni tedesche, si ritrovò esposto per più di 900 miliardi di euro verso i paesi della periferia. Una cifra pari aoltre due volte e mezzo il capitale totale delle banche tedesche. Questo rappresentava per esse un rischio enorme. Com’è noto, infatti, in seguito al crash d’oltreoceano, molte banche europee – e in particolare della periferia – si ritrovarono sull’orlo del fallimento. Se queste fossero crollate, avrebbero trascinato giù con sé anche molte delle banche tedesche verso le quali si erano indebitate. Sappiamo che non è andata così: tra il 2008 e il 2009, infatti, i governi europei hanno stanziato più di 3,000 miliardi (o tre trilioni) di euro per salvare le proprie banche – e ovviamente, con esse, le banche creditrici (molte delle quali tedesche) [2]. Sappiamo anche che in almeno uno di questi casi – quello dell’Irlanda – questo è avvenuto su diretta pressione della BCE (che infatti nel giro di pochi mesi avrebbe consigliato lo stesso approccio a tutti gli altri governi dell’eurozona, come attestato da questo paper). Come scrive Foglia, “la BCE fece imporre a Paesi come l’Irlanda, che avevano finanze pubbliche perfettamente sane, di rovinarle per salvare anche delle banche estere creditrici [tra cui alcune delle principali istituzioni finanziarie internazionali quali Allianz, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSB e Société Générale], che poterono rientrare dai crediti facili erogati”. Il risultato fu che nel giro di un paio d’anni il rapporto debito-PIL dell’Irlanda passò dal 25 per cento – uno dei più bassi dell’eurozona – al 100 per cento. Ma non è stata solo l’Irlanda a rovinarsi per salvare le proprie banche (e con esse i creditori): lo stesso vale anche per la Spagna, e in misura minore per il Portogallo. Com’è noto, l’effetto dei salvataggi bancari – e più in generale della crisi economica (ovviamente anch’essa causata dalle banche) – sulle finanze pubbliche di questi paesi è stato così devastante che di lì a poco, dopo la Grecia, tutti e tre – Irlanda, Portogallo e Spagna, in quest’ordine – sono stati costretti a chiedere aiuto alla troika UE-BCE-FMI. Anche in questo caso, però, dobbiamo chiederci: chi è che è stato veramente salvato dai bail-out della troika? I paesi debitori o quelli creditori?
Prendiamo l’Irlanda, il primo paese a uscire da un programma di “salvataggio” della troika, e per questo presentato come un “esempio di successo” della politica post-crisi della UE. Come apprendiamo da uno studio pubblicato di recente da Attac Austria e Attac Irlanda, mentre l’Irlanda riceveva 67,5 miliardi di euro di prestiti dalla troika a partire da fine 2010, il paese ha trasferito una somma totale di 89,5 miliardi di euro al suo settore finanziario nello stesso periodo. 55,8 di questi miliardi sono finiti nelle tasche delle banche creditrici, tutte straniere (tra cui varie banche tedesche e francesi). Non sorprende che a ottobre 2013 il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble abbia commentato così la situazione irlandese: “L’Irlanda ha fatto quello che doveva fare […]. Ora va tutto bene”. “Nel corso del suo cosiddetto ‘salvataggio’, l’Irlanda ha dato al suo sistema finanziario più soldi di quanti ne abbia ricevuti per il suo salvataggio”, sostiene Dominique Plihon di Attac Francia. “La popolazione irlandese si è pesantemente indebitata per salvare il sistema bancario europeo”. In particolare, lo studio punta il dito contro la decisione della troika – e in particolare della BCE – di costringere l’Irlanda a garantire il rimborso di tutti i creditori, anche quelli non coperti dalle garanzie dello stato. Un’indagine condotta dal Parlamento europeo, infatti, mostra che la BCE ha obbligato il governo irlandese a prendere questa misura minacciando di sospendere il finanziamento d’urgenza delle banche irlandesi. E questo sebbene il rimborso delle obbligazioni non faccia parte del memorandum di salvataggio e malgrado la richiesta dell’FMI che i creditori subissero delle perdite (per mezzo di quello che si chiama “haircut”). Così facendo, la BCE ha garantito la protezione anche degli investitori più speculativi, come gli hedge fund. Queste ultime avevano prestato soldi alle banche irlandesi a un tasso elevato quando era già chiaro che queste erano sul punto di crollare o di essere soccorse dallo stato. Il rapporto conclude che la BCE ha senza dubbio oltrepassato il suo mandato e raccomanda di non includerla in future troike. “Con ricatto e coercizione la BCE si è assicurata che in capo a cinque anni di salvataggio delle banche gli speculatori avranno raccolto 6 miliardi di euro di fondi pubblico”, dice Plihon.
E per quanto riguarda la Spagna? A metà del 2012, anno in cui il paese ha richiesto alla troika un bail-out di 100 miliardi di euro per salvare il proprio sistema finanziario, le banche spagnole erano esposte nei confronti delle loro controparti tedesche per circa 40 miliardi di euro. Includendo l’esposizione delle aziende e del settore pubblico spagnoli, il debito totale del paese nei confronti delle banche tedesche ammontava a più di 100 miliardi di euro [3]. In questo senso, il salvataggio delle banche spagnole – prima coi soldi dei contribuenti spagnoli, e poi con quelli dei contribuenti di tutta la UE, per mezzo del MES (Meccanismo europeo di stabilità) – va visto prima di tutto come un “salvataggio nascosto delle banche tedesche”, scrive l’autorevole rivista International Financing Review [4]. Gli fa eco Jens Sondergaard della banca d’investimento giapponese Nomura: “Il bail-out delle banche spagnole è in realtà un bail-out delle banche tedesche […]. Se le prime fossero fallite, le conseguenze per il sistema bancario tedesco sarebbero state devastanti” [5].
Fin qui abbiamo parlato soprattutto di debiti privati, ossia tra banche. Ed è normale, visto che il grosso dei debiti accumulati dai paesi della periferia nella anni precedenti alla crisi erano debiti privati, non pubblici (a dispetto della vulgata che siamo abituati a sentire sulle origini della crisi). L’unica vera eccezione a questa regola è la Grecia (e in misura minore l’Italia), dove il grosso del debito era effettivamente pubblico. I creditori, però, erano sempre gli stessi: perlopiù banche tedesche e francesi. E anche in questo caso non possiamo esimerci dal chiederci: a chi è andato veramente l’ormai celebre “salvataggio” della Grecia? Sempre Attac, in un altro studio, ha rivelato che il grosso dei 207 miliardi sbloccati dall’Unione europea e dall’FMI dal 2010 nel quadro del “piano di salvataggio” della Grecia sono andati alle banche (58 miliardi di euro) e ai creditori dello stato greco (101 miliardi), principalmente banche e fondi d’investimento. Ameno il 77 per cento dell’aiuto europeo, dunque, è andato a beneficio diretto o indiretto del settore finanziario. Solo 46 miliardi sono serviti a dare sollievo ai conti pubblici greci. Nello stesso periodo, lo stato greco ha pagato 34 miliardi di euro di soli interessi sul debito. Il governo tedesco ha rifiutato le conclusioni dello studio di Attac, affermando che tutti i greci hanno beneficiato del fatto che i creditori non siano falliti (sic). “L’obiettivo delle élite europee non è il salvataggio della popolazione greca ma del settore finanziario”, conclude Lisa Mittendrein di Attac Austria. “Hanno usato centinaia di miliardi di euro di soldi pubblici per salvare le banche dalla crisi che esse stesse hanno causato […]. Il cosiddetto ‘salvataggio greco’, in poche parole, non è altro che l’ennesimo salvataggio a beneficio delle banche”. Molte delle quali tedesche. È la stessa conclusione raggiunta anche da nientedimeno che Peter Böfinger, consigliere economico del governo tedesco, che ha dichiarato che il bail-out della Grecia “non riguarda tanto i problemi della Grecia quanto quelli delle nostre banche, che possiedono molti crediti nei confronti del paese” [6]. Incredibilmente, il dubbio che il bail-out così come concepito dalla Commissione europea e dalla BCE avesse lo scopo di salvare le banche e non la Grecia fu sollevato a suo tempo persino dal terzo membro della troika, il Fondo monetario internazionale. È riportato nero sui bianco nei verbali della drammatica riunione del 9 maggio 2010 in cui l’FMI ha dato il via libera al primo piano di aiuti per il paese, pubblicati dal Wall Street Journal. I documenti, classificati come riservatissimi e segreti, parlano chiaro: più di quaranta paesi, tutti non europei e pari al 40 per cento del board, erano contrari al progetto messo sul tavolo dai vertici FMI. Il motivo? Era “ad altissimo rischio”, come ha messo a verbale il rappresentante brasiliano, perché “concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia” [7]. L’articolo spiega che l’FMI era propenso a imporre subito un taglio al debito greco, per mezzo di un “haircut” (come poi è stato fatto nel 2012), ma la Commissione europea e la BCE erano fermamente opposte a imporre qualunque perdita ai creditori. Con i risultati che abbiamo visto.
Ma la Germania ha beneficiato anche di una altro “salvataggio nascosto”. Come spiega Foglia:
Al persistere della crisi, alla fine del 2011, la BCE decise di erogare credito generoso a buon mercato (LTRO) per evitare l’avvitamento dell’aumento dei tassi sul debito sovrano e bancario […]. Coi soldi ricevuti, le banche dei paesi periferici in crisi in parte proseguirono il rimborso dei crediti interbancari ricevuti soprattutto dalla Germania e in parte ricomprarono dall’estero il debito sovrano nazionale. Ma quando una banca tedesca chiede a una banca italiana di rimborsare un credito interbancario, o di pagarle un Btp che le ha venduto, la banca tedesca vuole essere accreditata presso la Bundesbank. La banca italiana quindi chiede alla Banca d’Italia di addebitarla in conto e accreditare la Bundesbank. Il rapporto tra le due banche private si estingue ma la Bundesbank resta creditrice, e la Banca d’Italia debitrice, sul sistema di pagamento della BCE noto come Target 2. E infatti, mentre l’esposizione verso la periferia dell’eurozona del sistema bancario tedesco scese da oltre 900 miliardi di euro del 2008 ai 380 circa di oggi, il saldo creditore della Bundesbank su Target 2 esplose e si colloca oggi a oltre 520 miliardi. In questo processo, il settore privato tedesco si è disfatto di molti crediti dubbi […]. Ma la maggior parte del credito concesso dalle banche tedesche alla periferia dell’eurozona è stato in pratica semplicemente passato alla Bundesbank come saldo di Target 2. E dei saldi di Target 2 rispondono in solido gli azionisti della Bce, e quindi anche la Germania, ma solo per il 27%. Ecco quindi come il sistema bancario tedesco è stato di fatto salvato mutualizzando i suoi crediti dubbi verso la periferia a spese di tutti i paesi dell’eurozona.
Conclude Foglia:
È ora di prendere atto che uno dei maggiori effetti imprevisti dell’attuale architettura incompleta dell’eurozona è che tutte le nazioni europee in solido hanno in pratica salvato il sistema bancario tedesco dai rischi dei crediti dubbi accumulati come contropartita dei surplus commerciali persistenti della Germania. A tutti gli effetti, un bail-out di oltre 500 miliardi di euro del sistema bancario tedesco da parte dei partner europei di cui pochi si sono ancora accorti.
Infine, potremmo aggiungere che la Germania ha ottenuto un ulteriore beneficio dalla crisi sotto forma di tassi d’interesse ridotti sul debito pubblico a causa dell’aumento dello spreadnei confronti dei paesi della periferia, che secondo alcuni studi avrebbe fruttato al governo tedesco tra i 9 e i 60 miliardi di euro [7]. A questo proposito, sarebbe utile ricordare che la Germania, nonostante possieda il debito pubblico più alto di tutta l’eurozona in termini assoluti – equivalente a 2,160 miliardi di euro, secondo gli ultimi dati Eurostat – paga un interesse sul debito del 2.5 per cento del PIL, rispetto al 5.5 per cento dell’Italia. Giusto per farsi un’idea della differenza che possono fare tre punti percentuale, se anche noi pagassimo un interesse equivalente a quello della Germania risparmieremmo all’incirca 40 miliardi l’anno sul servizio del debito.
Che conclusioni possiamo trarre da questi dati? Prima di tutto che sarebbe il caso di smetterla di dire che la Germania ha “sborsato molti soldi” per salvare le povere economie della periferia, quando in realtà è accaduto esattamente l’inverso. Ma soprattutto che la vera tragedia dei paesi della periferia – Italia in primis – risulta essere non tanto la politica della “cattiva Germania”, che in fondo si limita a portare avanti una strategia eticamente discutibile ma politicamente legittima di difesa dei propri interessi nazionali, quanto l’assoluta mancanza di leader dei suddetti paesi che abbiamo l’autorevolezza e il coraggio di inchiodare la Germania alle proprie responsabilità – o perlomeno di farle presente i numerosi benefici ottenuti più o meno deliberatamente nel corso della crisi – e di portare avanti una loro altrettanto legittima politica di interesse nazionale all’interno della dialettica europea. Come nota anche Foglia, l’Italia, in virtù del fatto che ha le finanze pubbliche più virtuose di tutta l’eurozona (a tal riguardo, vedi questo post) – oltre a essere il paese più colpito dalla crisi, dopo la Grecia, nonché una delle principali economie del continente –, sarebbe il paese più indicato per avviare un serio confronto con la Germania, se solo ci fosse qualcuno in grado di farsene carico. Come conclude Foglia, l’Italia “avrebbe buon titolo, se appena riuscisse a fare qualche vero progresso in campo domestico, per chiedere alla Germania quella solidarietà che ora nega dopo averne, inconsciamente, approfittato. E rilanciare così, al suo turno di presidenza tra pochi mesi, il progetto europeo”. In effetti, è un’occasione storica. Saremo all’altezza?
di Thomas Fazi
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[1] Daniel Alpert, “Challenge to austerity deepens, the handwriting is on the wall”, EconoMonitor, 6 maggio 2012.
[2] Elitsa Vucheva, “EU governments committed 3 trillion for bank bailouts”, EUob server.com, 9 aprile 2009.
[3] Gareth Gore e Sudip Roy, “Spanish bailout saves German pain”, International Financing Review, 29 giugno 2012.
[4] ] Gareth Gore e Sudip Roy, “Spanish bailout saves German pain”, International Financing Review, 29 giugno 2012.
[5] Citato in Gareth Gore e Sudip Roy, “Spanish bailout saves German pain”, International Financing Review, 29 giugno 2012.
[6] Citato in Stefan Schultz e Philipp Wittrock, “Bedrohte Wirtschaftsunion: Aufmarsch der Ego-Europäer”, Spiegel Online, 12 maggior 2011.
[7] Valentina Pop, “Germany estimated to have made 9bn profit out of crisis”, EUobserver.com, 9 novembre 2011; Isabelle Couet, “L’aide à la Grèce ne coûte rien à l’Allemagne”, Les Echos, 21 giugno 2012.