Non vorrei apparire irriverente nei confronti di due importanti giornalisti, quali sono Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, ma credo che la loro ultima fatica, Se muore il Sud (Feltrinelli, 2013), non aggiunga granché alla nostra conoscenza dei problemi del Mezzogiorno. Non solo: essa giunge in un momento della nostra storia in cui abbiamo già avuto il tempo di elaborare la performance a dir poco disastrosa di una certa classe dirigente del nord e la crisi, quella globale, ha cambiato gli stessi connotati della nostra economia duale.
Dicono gli autori: “Si rischia davvero che il Sud sprofondi. E se sprofonda trascina giù anche l’Italia”.In questa frase c’è più o meno il senso del messaggio che il libro vuole trasmettere. Ma è proprio questo il tema oggi? Tutti i rapporti più autorevoli sullo stato dell’economia meridionale ci dicono che le condizioni del sud hanno già abbondantemente superato la soglia di guardia: il rischio di una desertificazione socioeconomica è dietro l’angolo. E ci siamo. Ma dopo cinque anni di recessione e di austerità si può affrontare il tema del rapporto nord/sud con le stesse categorie di qualche decennio fa? Proprio la recente esplosione della rabbia sociale negli insediamenti produttivi del nord che per anni hanno trainato l’economia italiana, dal Piemonte al Veneto, rivela come la geografia del disagio e della crisi nel nostro paese abbia modificato i suoi confini tradizionali.
Il sud è quello che è, lo sappiamo, almeno da 150 anni. Ma il nord non se la passa un granché bene. Più che paventare il rischio che lo sprofondamento del sud abbia effetti trainanti sull’economia del nord, sarebbe perciò opportuno interrogarsi sulle cause del declino che investe l’intera penisola. Rovesciando, per certi versi, il ragionamento di Stella e Rizzo: e se il prolungarsi della crisi nei settori più produttivi del nord, combinata con i mali atavici del sud, avesse un effetto deflagrante sulla tenuta sociale e politica del paese nel suo insieme?
Dentro questa cornice, a mio avviso, ha senso ragionare sullo stato del Mezzogiorno, sugli sviluppi della questione meridionale, sulle possibili vie d’uscita. Con uno sguardo all’Europa, dove passano ormai gran parte delle decisioni che riguardano la nostra vita. Così come in questo quadro, e solo in questo quadro, la constatazione di Stella e Rizzo sulla scomparsa della questione meridionale dall’agenda politica del paese assume un rilievo pregnante, non come fatto a sé stante.
D’altro canto, se a tutto ciò si aggiunge il fallimento conclamato, politico e morale, di una parte significativa del ceto politico (e non solo) del nord degli ultimi venti anni, di cui la componente leghista è stata soltanto la parte più carnascialesca, ed il fenomeno della delocalizzazione “produttiva” degli interessi criminali delle cosche mafiose, ci si accorge facilmente di come ormai i termini della questione siano profondamente mutati rispetto a qualche decennio fa. Beninteso: tutta una serie di situazioni, di storture e sprechi, di casi deprecabili di mala gestione del pubblico denaro che nel libro vengono presi in rassegna, meritano una riflessione critica, ma non costituiscono materiale nuovo per un nuovo approccio, anche di tipo interpretativo, ai problemi che assillano il sud.
Si può essere in disaccordo con le cose che i due autori scrivono sulla Terra dei fuochi, sull’avvelenamento di intere aree della Campania, sul cancro che uccide i bambini? Certo che no. E’ accettabile che la Calabria ricavi in un anno da tutti i suoi beni culturali 27.046 euro e nel frattempo i Bronzi di Riace stanno sdraiati nell’androne del Consiglio regionale? No, evidentemente. Ma poi? Ce la possiamo cavare con la metafora del capitano Schettino che abbandona la nave ovvero reiterando la solita polemica sui politici ed i dirigenti fannulloni, incapaci, che non meritano i loro lauti stipendi? E poi, siamo sicuri che esista un rapporto di identificazione tra improvvida gestione della cosa pubblica e meridionalità?
Ancora: le classi dirigenti del sud hanno avuto gravi responsabilità dal dopoguerra ad oggi, ma non è forse il caso di interrogarsi anche sul perché la Repubblica, col nuovo cominciamento della storia nazionale dopo la tormentata, e per certi versi infausta, vicenda dell’Unità, non abbia voluto o saputo affrontare alla radice il problema dell’arretratezza del sud? Non si tratta di assecondare una certa vulgata per cui “la colpa è sempre degli altri”, ma di guardare in faccia la realtà; una realtà che non si può liquidare parlando di inveterato vittimismo dei meridionali o, peggio ancora, di ridicolo neoborbonismo. Né a tal proposito vale più di tanto l’osservazione remissiva dei due autori sul fatto che le imprese settentrionali “hanno sfruttato il Sud, saccheggiato le provvidenze pubbliche come la Cassa per il Mezzogiorno”, e che la classe dirigente del nord ha “strumentalizzato certe nefandezze per pure questioni di consenso elettorale…”. Non vale perché ripropone un concetto di “differenza” tra nord e sud superato dagli accadimenti italiani di questi anni. Abbiamo visto, per esempio, come è andata a finire con quelli che strumentalizzavano le “nefandezze” del sud a fini elettorali!
Prendiamo una frase dal libro, molto forte: “Sopravvivenza ricattata, delle clientele, dei favori pietiti in cambio dei voti, dei cantieri che non chiudono mai perché i soldi girano finché un cantiere è aperto, dei rapporti ambigui con le mafie”. Fermiamoci un attimo, facciamo mente locale. Queste parole descrivono univocamente lo stato in cui versa la società e l’economia del sud oppure potrebbero essere utilizzate per rappresentare quello che accade anche in altre aree del paese? Alla luce del verminaio scoperto recentemente in alcune regioni del nord, Lombardia in primis, fossi stato nei panni degli autori del libro avrei usato più cautela nel maneggiare certi argomenti.
Ma qui non si tratta di fare a gara per dimostrare chi è più inetto o più corrotto. Al nord come al sud c’è un problema gigantesco che riguarda la qualità sia della classe politica che di quella imprenditoriale. Al netto, ovviamente, di tutte le luminose eccezioni, sia al nord che al sud. C’è poi una “questione” meridionale, irrisolta, dentro la cornice di un paese in crisi, che paga anche gli effetti della sua “generosa” adesione al concerto euro-monetario. Il tema è complesso, ordunque, e non può essere affrontato con chiavi di lettura parziali.
Ho l’impressione, lo dico con franchezza, che gli autori di questo libro, oltre ad avere una visione stereotipata del Mezzogiorno, siano rimasti intrappolati in una saga che essi stessi hanno creato: la saga della “casta”, dove tutto è spiegato alla luce dell’inettitudine e dell’ingordigia delle classi dirigenti, politiche e non solo, del nostro paese. Un orizzonte angusto, che non consente di cogliere tutti gli aspetti del problema, di indagarne correttamente le cause, di individuarne i responsabili, tutti i responsabili.
di Luigi Pandolfi
Da: Calabria on web