Sarebbe dovuta essere la cerniera dell’Europa verso le ansie mediorientali, il colpo ad effetto scoccato alla buca finale di una gigantesca partita di golf giocata sul green dell’Ue…
E invece la Turchia che ha dato spettacolo con la misera repressione di Gezi Park impone un’analisi di altro spessore. Lontana da tentativi di annessione immaginari o da promesse e (false) pacche sulle spalle. Il sangue di quei tre morti e dei quasi tremila arrestati non può che far scattare nelle menti e nelle penne un cambio di passo, dal momento che a nulla servirà ripercorrere metodicamente il sentiero della “Turchia prossima ad entrare in Europa”: il ritornello ripetuto sino alla noia da chi, poi, nulla ha fatto in concreto per dare attuazione ai propositi. Non è quello il pertugio dal quale immettersi sui binari più corretti della questione. Ma sarebbe utile, invece, ragionare a mente lucida sul quel macabro gioco degli specchi con i “vicini” greci. Dove, mentre ad Atene i cittadini sono scesi in piazza lanciando cofanetti di yogurth contro il Parlamento perché affamati da tre memorandum suicidi della troika, a Costantinopoli la piazza è servita a rivendicare dell’altro, con cittadini indignati non per un pezzo di pane ma per più diritti.
Takshim come Tahir, rimbomba in questi giorni sui social network: e non si tratta di un paragone suggestivo e buono solo per titolare quotidiani e periodici. Perché se da un lato le piazze delle Primavere arabe nello scorso biennio sono state il palcoscenico da cui urlare il dolore di un pezzo di Mediterraneo stufo di dittature e repressioni, il caso turco ha rappresentato un passo in più. Coraggioso, irto di ripercussioni mondiali legate agli equilibri geopolitici su cui in pochi fino ad oggi si sono soffermati (forse per timore di infastidire i potenti?): la vivacità dei cittadini è come se avesse gettato un ettolitro di vernice rossa sull’immobilismo, austero e medievale, della classe dirigente del paese. Che, accecata dalla foga di mostrare i muscoli del pil e dei fatturati, ha relegato a scomoda cornice il principio sacrosanto della convivenza democratica: la libertà. Di espressione, di diritti, di consumare alcool, di baciarsi, di dire “no” all’ennesima colata di cemento di una città dove, forse, sta andando in scena l’ultimo atto, pardon, l’ultimo piano, della torre di Babele.
La pigra Europa, le cui istituzioni attendono una settimana per uno straccio di reazione ufficiale (ma il commissario Ashton è ancora in carica?) si aspettava una risposta matura, democratica ed europea: semplicemente ciò che politici locali e analisti embedded promettono da anni. Se è vero quello che i politici turchi hanno venduto fino ad oggi in termini di promesse di cambiamento, libertà religiosa e sociale, allora che facciano mea culpa delle azioni intraprese in piazza. E sposino la moderna democrazia, senza i distinguo che invece hanno continuato ad immettere in comunicati assurdi e dichiarazioni imbarazzanti. Altrimenti non spaccino la loro direzione di marcia per qualcosa che non è.
Sta tutto lì il binomio “Grecia-cavia” e “Turchia-felix” che nei giorni degli scontri si sono prima annusate e poi studiate con attenzione. Due realtà a una manciata di chilometri l’una dall’altra che, altro non fanno, se non certificare con un bollino di qualità il fallimento sic et simpliciter dell’Europa: delle sue politiche, dei suoi assurdi stratagemmi e di una strategia di allargamento condotta senza criteri e con tempi sbagliati. E’ l’Europa che avrebbe dovuto far ingresso in Turchia, nei meandri di quel potere militare e ultraortodosso con cui il dialogo non è consentito, all’interno di quelle dinamiche che hanno portato il premier Erdogan a felicitarsi per la presenza massiccia di turchi in Germania ma che al contempo non ha dato benefici “comuni” alla famiglia europea. Oggi che i nodi vengono al pettine, oggi che si iniziano a focalizzare meglio le crepe degli investimenti fatti proprio da Erdogan con l’aggravante dei suoi creditori nel golfo Persico che iniziano a reclamare il prestato, i fatti di piazza Taksim hanno un altro sapore.
E un altro piano di azione inizia a farsi largo nella mente di cittadini ed analisti. Nell’ultimo quinquennio Erdogan ha speso una quantità elevatissima di denaro. Il terzo ponte sul Bosforo, il nuovo secondo mega scalo aeroportuale nella capitale, camere di commercio turche aperte come funghi in moltissime città europee e non. Segno tangibile di un’espansione precisa, ma, è l’opinione di numerosi tecnici ed economisti, condotta sulla falsa riga della bolla speculativa. Immettendo denaro inesistente in un circuito che, un giorno o l’altro, chiederà di saldare quel drammatico conto. Se a questi numeri si sommano le testarde chiusure governative ad un’europeizzazione sociale, alla sfera dei diritti, alla libera determinazione di cittadini che, loro sì, si sentono e sono già di fatto europei, si ha un quadro più chiaro di cosa è accaduto a Gezi Park. Perché la storia non la fanno solo i grandi capi di stato, i conquistatori o i comandanti che premono un pulsante: la storia e i suoi grandi movimenti tellurici iniziano proprio da chi, senza stellette o mostrine, decide di sterzare. E di prendersi con coraggio ciò di cui ha bisogno.
di Francesco De Palo – twitter@FDepalo