Padre Felice Scalia, gesuita dal 1947, parla di Gioacchino da Fiore, della sua modernità, e del futuro della Chiesa. Recentemente ospite del “Premio Calabria – Sila” intitolato al grande monaco cistercense, svoltosi a San Giovanni in Fiore, padre Scalia è laureato in filosofia, teologia e scienze dell’educazione. Ha insegnato alla facoltà teologica dell’Italia meridionale e poi all’Istituto Superiore di Scienze umane e religiose di Messina. Collabora con Presbyteri, Horeb, Rivista del clero, Vita consacrata, Spirito e Vita e Vita Pastorale. Ha pubblicato:Il Cristo degli uomini liberi, edizioni La Meridiana, Molfetta 2010;Teologia scomoda. Il caso Sobrino, edizioni La Meridiana, Molfetta 2008;Alternativi e poveri. La vita consacrata nel postmoderno, Paoline Editoriale Libri, 2006;Eucaristia. Tenerezza e sogno di Dio, Paoline Editoriale Libri, 2002(con Giuseppe Agostino e Giorgio Campanini); Le relazioni nella Chiesa. Per una comunità «a più voci», Ancora, 1998. Afferma: “Quella di Gioacchino è una figura scomoda, molto scomoda. Presupporre una chiesa che passa dal culto della legge alla legge dell’amore, una chiesa che non ha bisogno di un papa-re, né di una banca vaticana, di una burocratizzazione dello spirito, né di un accentramento disciplinare romano, una simile chiesa fa paura anche oggi, soprattutto a quanti non servono Dio ma si servono di Dio”.
Padre Scalia, recentemente ha partecipato alla prima edizione del Premio Calabria Sila, svoltosi a San Giovanni in Fiore, dove ha parlato della spiritualità dell’abate Gioacchino, cui la manifestazione è intitolata. Che idea si è fatta dell’evento?
È stato istituito a San Giovanni in Fiore il “Premio Calabria-Sila-San Giovanni in Fiore”. Il 25 agosto 2013 il sindaco Antonio Barile, a nome di tutta l’amministrazione comunale, ha dato il via alla sua prima edizione. La Calabria è una realtà che soffre di stereotipi negativi per chi non conosce la sua gente, la sua storia, la sua centralità culturale ed umana a partire dal medioevo per giungere alla nostra realtà del XXI secolo. Come la parola “ndrangheta” sintetizza il peggio di una deriva malavitosa certo esistente nel territorio, la figura di Gioacchino da Fiore esprime da circa 800 anni il meglio del cuore, dello spirito dei figli della Calabria.La Calabria ha un cuore pulsante – ritiene a ragione il sindaco – ha un messaggio di umanità, ha uno spirito, uno stile di vita da offrire al mondo, una laboriosità senza eguali, ha intelligenza, ha una riserva di speranza che ha reso possibile il permanere di valori unici e – speriamo – non negoziabili. Sono ben lieto di dire che la giornata ha ricordato tutto questo con quel “trinomio” inscindibile, e ciò senza infingimenti, senza rimozioni, ma nella coscienza che il futuro è ancora nelle mani di quanti sanno che il destino non si subisce ma si costruisce. Certo è un po’ singolare che, mentre in tanti luoghi cattolici si parli tanto del “fare”, un sindaco ci tenga a far discutere su un modo di “essere”.
Sono tanti gli appellativi che si usano per definire Gioacchino da Fiore. Si parla di monaco, abate, teologo, esegeta, apologeta, pensatore, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta. Ma chi era davvero l’abate Gioacchino?
Forse è bene distinguere il Gioacchino da Celico (laico) e Gioacchino da Fiore (pellegrino, monaco, abate). Il primo lo definirei un “lavoratore flessibile” ante litteram. Cambia lavoro per inquieta ricerca di correttezza e giustizia, non perché licenziato dai “padroni”. Lascia volontariamente il tribunale di Cosenza, poi la corte normanna di Palermo, la zecca, ambienti notarili, la curia dell’Arcivescovo di Palermo e cancelliere del Regno Stefano de la Perche. Di questa sua esperienza lavorativa ne ha fin troppo e si licenzia perfino da Celico, scomparendo in Terra Santa verso i 38 anni, nel 1168. Gioacchino riappare in Sicilia, ma come Gioacchino da Fiore, come cittadino cioè di una nuova città ancora inesistente (“Fiore” appunto) ma che lui vede come sua vera patria. Pensa infatti di chiame “Fiore” la città da cui nascerà l’annunzio dell’epoca dello Spirito, come da Nazareth era nato il fiore dell’umanità, Gesù Cristo. Gioacchino da Fiore è asceta, predicatore popolare, monaco, abate, teologo, profeta, ecc. Lui però ama definirsi solo un cercatore della parola di Dio, uno scrutatore delle Scritture. In esse vuole trovare il fondamento della sua speranza: potere dire a tutti che un mondo “altro”, una chiesa “altra” erano possibili.
Parliamo della sua spiritualità…
Per spiritualità qui non intendiamo la somma ed il tipo delle pie pratiche che riempiono ogni giorno la vita di un monaco. Si intende il modo di guardare la vita, passando oltre la materialità degli avvenimenti. Si intende il senso che si dà all’esistenza e alla storia; la coscienza che si ha della nascita della verità definitiva, della luce vera, del significato ultimo delle cose, nella interiorità di un uomo. Gioacchino da Fiore “sa” essenzialmente due cose: la verità dell’uomo non può essere quella che appare in un mondo solcato da violenze, ingiustizie, oppressione dei poveri – la verità dell’uomo (oggi a noi sconosciuta) sta “altrove”, deve ancora essere “rivelata”, attende di essere compiuta. La cosa strana è che Gioacchino da Fiore non è più un contestatario. Sa di vivere in un’epoca in cui erano comprensibili le guerre, le corti corrotte, il potere e la ricchezza ecclesiastica, la rapacità dei principi, l’oppressione dei poveri. Queste cose non lo amareggiano più. Sono solo i sintomi di un “parto” nuovo della storia, perché come c’è stata l’epoca bella del Padre (creazione), e quella tragica del Figlio (la chiesa e le sue leggi), così verrà il “superamento” di tutto questo nell’epoca dello Spirito. Una spiritualità connotata da coscienza acuta del reale, fede nelle Scritture come rivelazione dei piani di salvezza efficace di Dio, sguardo verso il futuro, contemplazione silenziosa del Mistero Santo di Dio, della chiesa (deve essere “povera”, inerme, e deve guardare i poveri come i privilegiati di Dio), dell’uomo. Uomo vero è l’uomo animato dallo Spirito di Amore, appassionato di ogni vita umana, lontano dal bisogno di possedere uomini e cose, senza padroni e senza schiavi, amante della pace.
A proposito del suo pensiero si parla anche di “millenarismo”, alludendo ad una componente palingenetica del suo pensiero. Personalità politiche del passato e del presente, da Mazzini ad Obama, hanno ammiccato, per così dire, al suo pensiero. Si può parlare lato sensu di un’eredità “politica” del pensiero gioachimita?
Certamente che se ne può parlare. Gioacchino da Fiore conosceva bene il mondo politico di allora. Conosceva la politica accentratrice dei pontefici romani, la loro rivendicazione di poteri assoluti non solo sui credenti ma anche sui principi ed i re. Vuole “altro”. Anzi: vede “altro” come destino dell’uomo in attuazione dei piani divini di salvezza. Credo che in tempi in cui la storia era affidata solo alla forza dei potenti di turno, pensare possibile una storia costruita dallo Spirito di Amore, credere cioè che l’Amore possa non solo animare i sentimenti personali ma strutturare la storia, era semplicemente “rivoluzionario”. Anzi per lui era la pienezza, la completezza di quella “rivoluzione” che era sbocciata a Nazareth in quel “Fiore” che era Gesù. Si può dire che questo pensiero gioachimita di novità che non rinnega il passato ma lo “supera”, solca ogni pensatore medievale e moderno, ogni teologo, che si rifiuta di imbalsamare Dio ma crede nel Dio vivente. Chi ha cercato di delineare l’uomo nuovo, la storia umanizzata, non ha potuto fare a meno di riferirsi (spesso esplicitamente) all’Abate calabrese. Direbbe Ernst Bloch che in Gioacchino da Fiore rivive la “linea rossa” del profetismo biblico e dunque della speranza che anima ogni uomo cosciente di essere tale. Una tale speranza ha animato anche i vescovi del Vaticano II.
C’è un Gioacchino da Fiore inesplorato?
Il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti sta portando alla luce veri tesori sconosciuti alla grande massa. Io direi che c’è un Gioacchino da Fiore ancora da accogliere. C’è un pregiudizio su di lui, un sospetto di eresia. A nulla è valsa la dichiarazione di papa Onorio III nel 1220 sulla piena ortodossia dell’Abate calabrese. Il punto è che Gioacchino è scomodo, molto scomodo. Presupporre una chiesa che passa dal culto della legge alla legge dell’Amore, dalla lettera allo Spirito, significa relativizzare un tipo di gerarchia ed un modo di governo che nella cosiddetta “riforma gregoriana” erano al contrario una meta da perseguire ad ogni costo. Una chiesa che non ha bisogno di un papa-re, né di una banca vaticana, di una burocratizzazione dello Spirito, né di un accentramento disciplinare romano, una simile chiesa fa paura anche oggi, soprattutto a quanti non servono Dio ma si servono di Dio.
Qual è, se c’è, la modernità del pensiero di Gioacchino?
Mi pare consista nella sua visione del futuro come luogo della rivelazione di Dio e dell’uomo. Il meglio non è nel passato, ma nel futuro. Non c’è una “età dell’oro” a cui ritornare, ma una bellezza-pienezza di essere, di relazione che bisogna costruire. L’uomo eccede le sue realizzazioni storiche. Per dirla in termini paolini “l’uomo è già figlio di Dio ma ciò che è non appare ancora, deve ancora essere rivelato”. La fiducia nel futuro, nella capacità umana di risolvere i problemi, anima quanti sono sempre alla ricerca di un “più”, di un “meglio”, e non si appiattiscono alla conservazione del passato. E se è vero che a volte l’oggi ci pare peggiore dell’ieri, ciò è dovuto al fatto che la storia non è sempre lineare. Ha rigurgiti di barbarie, esasperazioni. Ma nell’insieme essa cammina verso un uomo che riconosce se stesso come legato nella responsabilità a tutto ciò che vive e ad ogni nato di donna. Un uomo chiamato a diventare “uno” – come dice il vangelo – con Dio ed i fratelli.
L’occasione mi è ghiotta per farle una domanda per così dire “fuori argomento”. Papa Francesco è il primo gesuita a salire al Soglio pontificio. Questi primi mesi di pontificato sembrano preludere a grandi cambiamenti nella Chiesa. Secondo lei quale dovrà essere la missione della Chiesa nei prossimi anni?
Mi è “ghiotto” anche potere rispondere. Spero proprio che papa Bergoglio non sia un “papa-gesuita”, né argentino, e neppure “occidentale”. Che sia semplicemente un “papa-cattolico”, universale, papa di ogni uomo, credente o no, di ogni Continente, di ogni nazione. Detto questo, mi pare di potere affermare che due tappe attendono la chiesa: vivere il Vaticano II, andare oltre il Vaticano II. Vivere il Concilio che da ben due pontificati è stato messo in ombra se non osteggiato. Quando parlo di Concilio intendo la visione del Cristo come salvatore della storia e non solo dell’al di là, la centralità del Regno di Dio e la relativizzazione della chiesa a “segno e strumento di salvezza”, la fiducia nell’uomo e nel cammino degli uomini (quale che sia la cultura e la religione), la Parola di Dio come norma suprema del vivere, del credere, delle stesse azioni liturgiche, la chiesa come “popolo di Dio” che ritorna al vangelo e vede nei “piccoli” e nei “poveri” non oggetti di pastorale ma maestri nello Spirito… Andare oltre il Vaticano II significa affrontare con spirito evangelico i problemi che in questi 50 anni che ci separano da quell’evento, sono sorti. “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio” – diceva Giovanni XXIII. Ecco la chiesa deve comprendere meglio il Vangelo alla luce del cammino fatto dall’uomo per la cui salvezza è stato annunciato. Papa Bergoglio, che nella sua formazione gesuitica ha avuto come unico modello di spiritualità un Cristo contemplato ed amato con passione totalizzante, questo papa che nella sua professione religiosa ha fatto voto di non ambire mai una carica di prestigio e potere nella chiesa, ma ha promesso “in tutto di amare e servire” l’uomo, questo Vescovo di Roma “venuto dalla fine del mondo” può mettere mano ad un’opera immane fidando nello Spirito ed in quei figli del Regno che lo stesso Spirito ha suscitato. Tra questi – come i gesuiti Bollandisti affermano – il Beato Gioacchino.
di Luigi Pandolfi