Il 12 ottobre in piazza per la Costituzione. Perché le cose non funzionano, perché le soluzioni ai problemi del Paese non si trovano e i disastri politici, spesso da far accapponare la pelle, si moltiplicano? La degenerazione della classe politica, l’insipienza dei governanti, lo sfarinamento dei partiti – la loro incapacità di ritrovare la strada del legame con la società e insieme il loro essere così interni ai palazzi, ai poteri, agli interessi personali e di gruppo: è qui che bisogna cercare, è da qui che bisogna fare chiarezza sulla crisi del Paese, nell’epoca in cui le élites politiche hanno fatto bancarotta di fronte alle élites economiche, sottoponendo i propri Paesi a vincoli sempre più soffocanti e sempre meno controllabili democraticamente. E per questa via hanno alimentato la percezione che la politica sia inutile e l’idea dell’unità dell’Europa repellente. Invece la crisi politica, in Italia in modo esemplare, viene scaricata sulla Costituzione, ostacolo, si ripete ormai sfrontatamente nel dibattito pubblico, alla modernizzazione che Bruxelles invoca e impone. Così i partiti trovano, come sempre, l’alibi per nascondere i propri vizi e le proprie inadempienze e si fanno paladini della Grande Riforma Costituzionale. Il 12 ottobre Sinistra Ecologia Libertà sarà nelle strade per la Costituzione. Non per manifestare un nostalgico attaccamento alla Carta ma per rivendicarne l’attualità, per rimettere al centro della politica quello straordinario nesso tra la tavola dei diritti politici e la tavola dei diritti sociali che informa in radice la legge fondamentale della Repubblica. E’ grazie a questo nesso che, attraverso la rappresentanza democratica, il potere dello Stato diventa legittimo.
Oggi è proprio la qualità della crisi a imporre di non lasciar correre sulla Costituzione, di parlare chiaro sulla posta in gioco. Dietro al mantra ossessivo della Grande Riforma Costituzionale, c’è una precisa visione strategica e c’è una’idea delle relazioni sociali, della qualità della democrazia, del ruolo delle istituzioni repubblicane, che da quella visione discende. E’ un’idea non di riforma ma di controriforma – chiamare le cose col proprio nome è ormai un dovere civico, se non si vuole soccombere all’accidia dello spirito pubblico. Una riforma non solo da nominare tra virgolette ma da considerare come una sorta di pozzo avvelenato. A sentire chi ne è da tempo fautore e sostenitore, soprattutto a sentire oggi la maggioranza delle larghe intese, che con fervore se ne fa vanto, la riforma dovrebbe rinnovare l’efficienza dello Stato, la funzionalità dell’esecutivo, la legittimità della rappresentanza democratica. E invece è vero esattamente altro, perché l’obiettivo di fondo è di relegare in qualche angolo di antiquariato storico la Costituzione del ’48, portando così a termine di processo di svuotamento già in atto dei suoi elementi strutturanti . Soprattutto stabilendo la preminenza – già di fatto in atto, attraverso la pratica ampiamente invalsa della decretazione su tutto e della fiducia a ogni piè sospinto – dell’esecutivo sul Parlamento e indebolendo fino al completo inaridimento proprio le radici costituzionali del nesso tra democrazia politica e democrazia sociale. In questo modo si lede il patto di cittadinanza di cui la Repubblica è garante e che è il cuore della Carta, il senso profondo della sovranità popolare, la radice legittimante della rappresentanza democratica. E’ apparsa chiara la sindrome da padri costituenti che anima trasversalmente gli esponenti delle larghe intese impegnati nell’impresa riformatrice. E’ la Costituzione in quanto tale che viene rimessa in discussione e la disinvoltura con cui si procede sta a testimoniarlo. L’ampio margine previsto per modifiche a tutte le norme “strettamente connesse” ai titoli I, II, III, e V della Costituzione, secondo quando è stato già deciso dal Senato, prefigura infatti, pericolosamente, una sorta di “potere paracostituente” che potrebbe alimentare qualsiasi incursione “riformatrice”, anche in direzione della prima parte. E comunque uno stravolgimento delle parti in discussione tale da ridurre a niente la prima parte. Niente meglio dell’esternazione della JP Morgan, leader assoluta nei servizi finanziari globali, spiega le finalità di questa ansia riformatrice.
La JP Morgan nel maggio scorso ha bollato come infide le Costituzioni nate dalla Resistenza – sotto schiaffo soprattutto quelle dei Paesi mediterranei – perché in esse, secondo JP Morgan, gli esecutivi non hanno adeguata forza di fronte ai Parlamenti, i diritti dei lavoratori sono eccessivi, la protesta è spesso incontrollabile. Si è poi appreso dalla stampa (la Repubblica) che “JP Morgan, insieme a Barclays e Credit Suisse, è stata citata in giudizio dalle autorità di regolamentazione statunitensi in merito alla manipolazione illegale del tasso d’interesse Libor”. E ancora che ”JP Morgan è sotto processo da parte delle autorità Usa per la frode – 2005-2007 – sui mutui subprime (Wall Street Journal)”. E ancora che ”JP Morgan è stata sanzionata con una multa di 920 milioni di dollari e rimborsi ai clienti per altri 80 milioni per aver spinto i consumatori a comprare involontariamente altri servizi che non volevano, di fatto imponendo commissioni ingiustificate”. Poco, anzi niente, si è sentito da parte del mondo politico del nostro Paese sullo sfrontato ardire, da parte di un’agenzia finanziaria di tal fatta, a pontificare sulle leggi fondamentali dei Paesi, indicando ai governi, neanche troppo velatamente, ciò che sarebbe utile intraprendere. Ma niente avviene per caso. La nostra Repubblica, scrive Barbara Spinelli in uno dei suoi acuminati articoli del mercoledì sul quotidiano di Scalfari, si è fatta presidenziale e la metamorfosi non è stata decisa dal popolo sovrano: è avvenuta come se l’avesse dettata motu proprio la natura. Non si può che essere d’accordo con Spinelli. La Grande Riforma Costituzionale dovrà servire soprattutto a sancire e stabilizzare quanto già sta avvenendo. Il dibattito e le modalità in cui esso avviene – da una parte, elitario, nei luoghi separati delle élites (i “saggi”) che decidono, dall’altra, “popolare”, nell’insensato cicaleccio mediatico che intontisce – hanno lo scopo di completare il processo di normalizzazione dello stato di emergenza in cui il nostro Paese si trova da almeno due anni – senza contare i disastri del ventennio berlusconiano che ne hanno favorito l’avvento. Normalizzazione dello stato di emergenza e dello slittamento delle funzioni istituzionali, a cominciare da quelle del Capo dello Stato, sempre più di natura presidenzialistica. Ilvo Diamanti definisce il processo in atto come di un presidenzialismo preterintenzionale. Sul preterintenzionale si possono avanzare dei dubbi (le scelte di Napolitano vanno davvero oltre le sue reali intenzioni o c’è coincidenza?); sul presidenzialismo di dubbi non ce ne possono essere. Il presidenzialismo è ormai merce corrente non solo nel dibattito pubblico ma nell’immaginario e nel sentimento popolare, altrettanto quanto le sembianze sfigurate della rappresentanza democratica, fatta coincidere in tutto e per tutto con la vituperata “casta”, mentre l’istituzione Parlamento viene strapazzata come il luogo degli impedimenti cavillosi che ostacolano il gagliardo procedere dell’esecutivo. Anche per questo – è l’altro mantra imperante – occorrono le larghe intese, come esercizio di ordine e obbedienza, tutti insieme appassionatamente ad accogliere da un “alto” che arriva fino a Bruxelles, le direttive “per il bene del Paese”, imparando così l’arte del lo stare insieme a tutti i costi e perdendo l’attitudine al conflitto politico .
Cioè la morte definitiva della politica e il trionfo dell’economia finanziaria. La Costituzione, proprio perché è ancora vitale, può ovviamente essere sottoposta a verifica e revisione di questo o quel punto, attraverso emendamenti e integrazioni. E’ del tutto ovvio ipotizzare che si proceda non solo a interventi per la sua manutenzione ma anche e aggiornamenti di peso. Il monocameralismo oppure una diversa funzionalità del Senato rispetto alla Camera, per esempio. Il numero dei parlamentari e altro. Attraverso una logica puntuale, accorta, funzionale, fuori da ogni urgenza di contingenza politica, come negativamente avvenne invece alla fine della XIII legislatura con la modifica del titolo V, che ha reso caotico e contraddittorio il rapporto tra Stato e Regioni, moltiplicando la spesa pubblica e la sua incontrollabilità. Titolo V che ora si vuole sottoporre a riforma della riforma, nel grande calderone del tutto da cambiare. Forse anche il Titolo IV (la Magistratura), finora escluso ma nella nuova fase che si è aperta per la maggioranza, non è detto che il passo non venga tentato. Il problema per noi non ha, in ogni caso, nulla a che vedere con l’idea di una conservazione statica delle cose. Ci opponiamo alla cancellazione nella sostanza o al forte depotenziamento di quel Costituzionalismo democratico che ha segnato la storia europea del XX secolo e la sua civiltà giuridica. E che conserva straordinarie risorse di attualità di fronte alla crisi che viviamo. La Costituzione italiana ne fa parte. Per tutto questo la nostra opposizione alle Grande Riforma Costituzionale non può che essere chiara e netta.
di Elettra Deiana