Giovanni si è appena alzato. Si fa la barba. Esce di casa e, quando arriva nel suo negozio, ha immediatamente un consiglio da dare ad uno dei suoi operai. Perché lì tutti si fidano di lui.
Gemma fa la gincana tra i marciapiedi, per evitare le recinzioni dei lavori in corso, fino a quando arriva a casa, contrabbasso in spalla, dopo la sua lezione di musica.
Enrico ha avuto un appuntamento, nel suo studio di fisioterapista, stamattina. Ma già pensa al weekend, quando potrà finalmente andare a fare una gita sul lago: Enrico adora andare in barca a vela.
Normale quotidianità di gente qualunque.
Solo che Giovanni, Gemma ed Enrico hanno una cosa in comune. Non ci vedono. Sono non vedenti totali.
E come loro, lo sono anche Luca, Felice, Mario, Aldo, Daniela, Claudio, Michela, Piero e Loredana. Tutte persone qualunque che, agli occhi di chi una vista ce l’ha, possono sembrare persone straordinarie. E forse lo sono. Anche se a loro non piace sentirselo dire.
«Niente pietismo». Ecco perché il docu-film Per altri occhi di Silvio Soldini e Giorgio Garini, di cui sono i protagonisti e che verrà proiettato domani sera nelle sale di molti cinema italiani, in occasione della Giornata mondiale della Vista, a loro è piaciuto sul serio, anche se non l’hanno visto. Ma l’hanno potuto ascoltare, in questo film hanno raccontato la propria vita. Perché gli altri occhi non sono mica i loro, che per occhi hanno i polpastrelli delle mani con cui leggere e scrivere. O l’udito con sui distinguere la rotta di una barca o la traiettoria di una pallina da baseball. O il proprio corpo con cui scendere a velocità lungo una pista da sci, godendone quell’emozione indescrivibile.
No, gli altri occhi sono quelli di chi domani sera di questo film vedrà i colori, le immagini, le figure in movimento. Di chi quegli occhi ce li ha sul serio. Ma spesso, troppo spesso, non vede quello che vedono loro.
Lo dice anche lo stesso Soldini: «Girando questo film ho trovato molto di più di quello che mi aspettavo. Anche se fin dall’inizio avevo avuto la percezione di poter fare un film, attraverso di loro, con cui vedere noi stessi». Insomma, non è un film su di loro ma con loro. Con loro che non vedono e che insegnano qualcosa a noi che vediamo. Ma che soprattutto ci insegnano a guardarci.
E poi, come osserva anche Luca, cosa vuol dire questo ‘noi’, questo ‘loro’? Non esistono categorie. E Luca lo sa bene: «Anche se non fossi diventato cieco, sarei stato così come sono, avrei avuto la medesima sensibilità». Perché Luca è un musicista, uno di quelli bravi, in grado di trasformare le emozioni in note per il suo pianoforte, che a lui piace chiamare Arturo, come fosse un vecchio amico. Che sa raccontare in musica un luogo ed un paesaggio: Luca riesce a vederli lo stesso. Sente la monumentalità delle montagne che si ergono su di lui, percepisce la profondità della valle e quella pace infinita e senza incrinature, quando sale su per i sentieri, e fotografa gli alberi. Luca li vede, ascoltando il fruscio delle foglie, percependone sul viso la voce dei rami. E poi, il lago «Mi ricordo, che certe volte era del colore azzurro del cielo e del verde dell’erba, che traspariva sul fondo». Luca se lo ricorda e oggi il lago è ancora così. Anche se lui non può vederlo con i suoi occhi, ma con l’infinita profondità del suo animo sì.
Felice, invece, fa lo scultore «Ho iniziato con Zamboni, a Bologna. Voleva fare un esperimento: far scolpire alcuni ragazzi non vedenti. Per gli altri tre è stata un’esperienza di vita. Per me è diventata la mia vita». Ora Felice è un artista affermato e il suo modo di raccontarsi uomo e non vedente, come chi ha perso la vista a 14 anni e in questa perdita ha trovato qualcosa, fa venire i brividi. Sì, a noi vedenti: «Mio padre è camionista, i miei fratelli fanno i camionisti, sarei diventato un camionista anche io. E invece ho scoperto la scultura. E quando ho perso la vista, potevo restare a casa con mia madre e i miei fratelli, coccolato e sostenuto da tutti. E invece sono andato via».
Ha cercato la sua strada Felice, e l’ho trovata. La cecità gli ha offerto un’opportunità e lui l’ha afferrata al volo: «Non siamo supereroi: facciamo quello che possiamo con quello che abbiamo, a prescindere da limiti e barriere. Non parliamo in termini di disabilità, ma di abilità».
Questo è quello che ci raccontano le giornate di Claudio e Michela, marito e moglie non vedenti, che lavorano in Radio e vivono insieme; e sorridono con ironia di chi confessa loro: «Vi vedo passare con i bastoni bianchi». Sorridono dei pregiudizi più o meno bonari della gente, delle domande sincere dei bambini e dell’imbarazzo – un po’ meno sincero – dei genitori.
Giornate normali e piene di gioia come quelle di Mario, che adora l’arte e ha una casa piena di quadri e di sculture, con un paesaggio mozzafiato sulle colline marchigiane. Che mostra a Soldini i suoi dipinti: «Qui ci dovrebbe essere una chiesa… c’è?» indicando con il dito. E lì sì – perdonateci – ma un nodo in gola sale, sale e non va giù. Però, subito dopo si ride, quando, in camera da letto, Mario descrive il suo dipinto preferito, con un uomo ed una donna. Salvo scoprire che sono nudi. «Ma nudi, nudi?». Questo non gliel’avevano detto.
A Mario piace passeggiare sulla spiaggia con i suoi amici, correre con il suo cane da accompagno, e sciare. Come Giovanni, che cieco è diventato a 32 anni: «Sono precipitato in un pozzo. Adoravo guidare e non potevo farlo più. Poi, piano piano, ho iniziato a fare tante cose e sono riuscito ad uscire da quel pozzo». Oggi Giovanni è un sessantenne superattivo: della sua passione per la guida gli resta solo una vecchia Topolino tenuta come un gioiello, nel garage di casa, e che accarezza e mostra agli amici come fosse una parte di se stesso, anche se non può più guidarla. Ma Giovanni va in piscina e studia inglese, scia e va in barca a vela, anche se la moglie deve distinguergli le camicie per colore con una graffetta attaccata alla tasca: «Se no faccio abbinamenti terribili».
E sorride, sorride tanto Giovanni, di un sorriso che insegna a chi può guardarlo quanto siano piccoli ed insignificanti, a volte, i limiti insormontabili che ci vediamo davanti, noi disabili normodotati. Noi che ci spaventiamo per un amore finito. Noi che ci gettiamo da soli in quel pozzo senza volerne venire più fuori, anche se possiamo vedere, camminare, ascoltare.
Enrico ha perso progressivamente la vista. Racconta della sua battaglia quotidiana in metropolitana: «Un paio di volte me la sono vista brutta». È stato lui ad accendere una lampadina nella mente del regista di Pane e Tulipani: «Cercavo un fisioterapista» racconta Soldini «e mi hanno consigliato Enrico. Ma mi hanno avvisato: “Attento, che non ci vede”». E in quegli incontri, il regista è entrato in un altro mondo e ha capito che valeva la pena raccontarlo.
Raccontare la forza dei piccoli gesti di Enrico e dei suoi compagni, raccontare l’ottimismo involontario della sua ammissione: «Io vedo un grande bianco, non un grande nero».
Ma a chi? Risponde ancora una volta Felice: «Questo film non è da destinare solo ai vedenti, ma anche a tanti genitori di ragazzi non vedenti e di ragazzi con disabilità, perché riescano a ridimensionare i limiti. Non tutti i non vedenti sono come noi. Spero che alla proiezione di questo film (che sarà accompagnato anche da audio commento) assistano anche molti non vedenti».
E non tutti i vedenti sono come quelli che si imbarazzano quando vedono una persona con il bastone bianco e che sussurrano, incrociando Loredana, «Poverina». E lei indignata spiega: «Poverina? Io magari sono mille volte più felice di quella persona: è vero, all’inizio è stato difficile. Ma sono andata avanti. Ora ho un nuovo amore e faccio tante cose che mi fanno sentire viva. Posso dire di essere felice anche così».
Non tutti i vedenti si spaventano di fronte alla disabilità. Come la moglie di Felice: «Le mie amiche mi dicevano: “Ma come fai a stare con un uomo che non può vederti?”. Ma loro non sanno che lui mi vede, mi vede ogni giorno».
Felice ha completato una scultura. È un doppio ritratto: una donna che tiene tra le braccia un bambino. Felice è diventato papà da poco. E il volto di quella donna, scolpito nel marmo, è identico, ma proprio identico, a quello di colei che gli ha donato quel bambino e che ha perfettamente ragione: l’uomo che ama può vederla. Anche se con altri occhi.
di Isabella Pascucci