L’11 dicembre 2001 la Repubblica Popolare Cinese, grazie al rush finale del Presidente Jiang Zemin e del Primo ministro Zhu Rongji, concludeva un iter di accesso durato quasi quindici anni si avviava a diventare la seconda potenza mondiale con l’ingresso nel Wto. Una scelta che fa ancora discutere, una data che cambiò la storia economica del Mondo.
Dalla metà degli anni ’80 fino all’ingresso nel WTO, la Cina si è trovata costretta ad adattare la sua economia per far fronte ai requisiti di accesso all’organizzazione, agendo principalmente su tre settori dell’economia:
- la determinazione dei prezzi dei beni, passando da un sistema altamente centralizzato ad uno dettato dalle leggi economiche;
- la proprietà privata, abbandonando l’idea dello stato come principale attore economico a favore di una società dove lo stato, pur rimanendo guida e forza propulsiva dell’economia, concorre insieme alle forze private;
- le riforme sugli investimenti esteri che in pochi decenni hanno portato la Cina a diventare leader mondiale delle esportazioni.
Mentre si manifestava a Genova, alcuni mesi prima, la globalizzazione si apprestava a complicare la sua architettura mondiale. Dopo l’adesione al WTO, la Cina ha registrato una crescita commerciale esplosiva guidata in parte dalla riduzione delle barriere tariffarie. Secondo la Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo dal 2001 al 2020 le esportazioni cinesi sono aumentate dell’870% e le importazioni del 740%. Il valore commerciale totale è aumentato dell’810%, molto più velocemente di un aumento del 180% per il commercio globale complessivo. Il contributo medio cinese annuo alla crescita economica globale è ora vicino al 30%.
Il Pil della Cina è cresciuto di otto volte e il volume degli scambi è aumentato di dieci volte. I consumatori americani hanno ampiamente beneficiato dell’ingresso della Cina nel Wto perché hanno potuto acquistare beni prodotti in Cina a prezzi bassi. Le aziende hanno tratto profitto da un maggiore accesso all’enorme mercato cinese. Nel 2017, ad esempio, i consumatori cinesi hanno rappresentato circa il 15% delle vendite di Apple e dal 2001 le esportazioni statunitensi in Cina sono aumentate del 450%.
I funzionari statunitensi nutrivano grandi speranze che quei termini di ingresso avrebbero portato la Cina sulla strada della liberalizzazione del mercato e avrebbero integrato il paese nell’ordine economico globale.
Speranze oggi non propriamente raggiunte secondo gli stessi americani. Secondo Robert Lighthizer, infatti, gli Stati Uniti avevano “sbagliato nel sostenere l’ingresso della Cina nell’OMC”, sostenendo che il “regime commerciale mercantilista guidato dallo stato” della Cina era “incompatibile con il mercato”. Kurt Campbell ed Ely Ratner, due ex funzionari dell’amministrazione Obama, hanno sostenuto che “l’ordine internazionale liberale non è riuscito ad attirare o legare la Cina con la forza prevista”. Secondo la maggior parte dei resoconti, a Washington e più in generale, il modello economico della Cina non si è rivolto al liberalismo di mercato dal 2001, ma si è invece consolidato in una forma di capitalismo di stato che Pechino spera di esportare a livello globale. L’adesione all’OMC ha consentito alla Cina l’accesso all’economia americana e ad altre economie globali senza costringerla a cambiare veramente il proprio comportamento, con conseguenze disastrose per i lavoratori e i salari in tutto il mondo. La Cina sembra aderire a parole alle norme internazionali e continuare a giocare secondo le proprie regole, sfruttando scappatoie e ingenui politici all’estero.
Un processo quindi ancora in itinere e non del tutto consolidato sia sotto il profilo economico sia sotto il profilo delle riforme interne, tese ad accrescere democrazia e libertà e, soprattutto, ad introdurre maggiori tutele dei diritti umani ancora lontani dall’essere riconosciuti.