A cinquecento anni dalla pubblicazione de “Il Principe” di Niccolò Machiavelli il tema dell’importanza della politica nel governo delle società non può non essere ancora attuale.
Ma un’opera scritta nel 1513 quale lezione può trasmettere agli uomini del XXI secolo? Certamente possiamo definire ”Il Principe”, gramscianamente parlando, come un “libro vivente”, nel senso di un testo che, nel corso dei secoli ,e in maniera sempre diversa, è stato capace di parlare ai suoi lettori.
Non è un caso che in ogni epoca storica ci si sia variamente richiamati al pensiero di Machiavelli, attualizzandone gli aspetti più salienti a seconda delle esigenze del momento: se nell’Italia postnapoleonica si è esaltato il suo realismo politico che indicava nell’affermazione di una monarchia forte l’unico metodo per superare le lotte intestine che dilaniavano allora gli stati preunitari, in epoca risorgimentale il “Segretario fiorentino” veniva dipinto come il profeta della riscossa nazionale; se Gramsci identificò il “Principe” machiavelliano non in un singolo individuo ma in un intero partito politico, nel ventennio fascista Mussolini lo evocò per motivare la sua idea di Stato etico.
Ed oggi? Cosa può esserci utile oggi dell’elaborazione machiavelliana? Per rispondere a questa domanda partiamo dal noto binomio etica/politica intorno a cui ruota una parte non secondaria della riflessione dell’autore del “Principe”.
Il tema dell’etica e della questione morale hanno sempre giocato un ruolo importante nella politica, ma dire che Machiavelli sia stato indifferente verso le questioni etiche e a dir poco fuorviante. Purtuttavia egli ha spiegato che la politica è cosa diversa dall’etica, e che a volte si è costretti, nell’interesse dei governati, a prendere decisioni che non concordano con le proprie convinzioni morali.
Quando parliamo di una lezione machiavelliana che giunge fino ai nostri giorni ci riferiamo pertanto al suo messaggio sulla “centralità della politica”, intesa non come strumento “per redimere l’uomo dai suoi vizi e dalle sue debolezze”, per usare un’espressione del politologo Alessandro Campi, ma come mezzo per governare la storia, che, per sua natura non procede mai per percorsi lineari.
Il realismo di Machiavelli non va letto come rassegnazione ma come convincimento che per cambiare la realtà bisogna prima comprenderla e poi operare su di essa.
Parafrasando lo stesso Machiavelli possiamo allora dire che la politica è il solo strumento che gli uomini hanno per governarsi, per restare uniti, per cercare di costruirsi un futuro migliore. Un mondo senza politica sarebbe l’immagine di un girone dantesco. In un mondo senza politica, quindi senza strutture di governo e istituzioni, regnerebbe il caos e la sopraffazione dei più forti sui più deboli.
L’epoca in cui scrive Machiavelli è un’epoca di profonda crisi politica, eppure solo nella politica egli intravede il rimedio possibile per superarla. In tempi di antipolitica e di populismo questa lezione risulta quanto mai attuale. Certo, stiamo parlando di fenomeni che non appartengono al periodo storico di Machiavelli, che Machiavelli non conobbe, ma, considerando la sua diffidenza verso la demagogia di un politico-predicatore come il Savonarola, possiamo sicuramente sostenere che la sua posizione rimarrebbe uguale dinnanzi ad alcuni predicatori contemporanei.
Oggi come nel 1513 sembra che non ci sia nessun “Principe” capace di risollevare l’Italia da questa crisi, che non è solo economica beninteso. Tuttavia, oggi come allora, non è possibile rinunciare alla politica come mezzo per risolvere i problemi della società. In questo sta sicuramente la straordinaria lezione di Machiavelli e la riviviscenza del suo pensiero.
di Barbara Presta