Angelo d’Orsi spiega le ragioni per cui non scenderà in piazza il 12 ottobre: “Basta giocare in difesa. Le manifestazioni non servono senza una parallela azione capillare sul ‘territorio’, secondo il modello vincente dei referendum, capace di ascoltare proteste e bisogni concreti”. Per Paolo Flores d’Arcais occorre invece moltiplicare l’impegno per il successo dell’iniziativa, perché “avrebbe un’influenza fortissima sull’andamento della crisi italiana. Ma dipende dalla chiarezza con cui si dirà cosa e chi si contrapponga alla realizzazione della Costituzione”.
Il 12 ottobre non ci sarò, perché … di Angelo d’Orsi
Non parteciperò alla manifestazione del 12 ottobre a Roma. Ho partecipato, invece, sia pure da ascoltatore, all’assemblea preparatoria dell’8 settembre e non sono stato stimolato affatto ad aderire alla successiva manifestazione.
Intanto, quell’assemblea non mi è piaciuta. È stata condotta malamente (la signora Bonsanti, gentile, non aveva il polso né l’attenzione sufficiente per guidare la riunione), secondo peraltro un vecchio schema, ormai, a mio avviso, stucchevole. Ci sono stati, certo, interventi notevoli, altri mediocri, altri scontati. Ma il punto non è questo. Il punto è l’aria reducistica che si respirava: eravamo “tra noi”, ci applaudivamo, o, come per l’intervento di Vincenzo Vita (rappresentante di ciò che rimane di un PD critico), esprimevamo (anche in modo scomposto, nell’evidente incapacità della presidenza di controllare la situazione) il nostro dissenso, per chi non fosse del tutto allineato, per chi non dicesse esattamente le parole che ci si attendeva: parole di conferma, di esaltazione della lotta, di esecrazione del nemico. Il punto è l’assenza quasi totale di giovani, in quell’assemblea. Ci si vuole interrogare su questo? Il punto è che a quell’assemblea si conoscevano tutti. Era un raduno di amici e compagni riemersi dal passato: vecchi amici, vecchi compagni. Che si parlano tra loro, si danno pacche sulle spalle, vanno a bere un caffè. Si promettono di rivedersi presto. C’era entusiasmo, c’era voglia di fare, c’era anche un po’ di rabbia (ma poca) per una situazione bloccata come quella di questo Paese senza speranza. Ma nihil sub sole novi, mi è parso.
Uscendo dall’assemblea ho colto un frammento di conversazione fra due giovani che come me abbandonavano la sala prima della fine (io avevo un treno da acciuffare). Lei diceva a lui: “mio fratello, che ci ha vent’anni, mo’che torno a casa, mi chiederà: allora? Che fai in queste riunioni? E io che gli dico: sono andata a difendere la Costituzione?! E lui sai che mi risponde: Ma che cazzo me ne frega, a me, della Costituzione?”. Non mi ha scandalizzato udire quelle parole. Anzi, mi sono detto che forse il fratello non aveva torto, e mi sono rafforzato nei dubbi sulla manifestazione “in difesa della Costituzione”. Non mi pare si tratti di un messaggio politico forte, convincente, capace di fare presa. Suona astratto, lontano, inerte. Oggi, forse, una politica nuova deve parlare delle cose, non dei princìpi, deve affrontare i problemi della sopravvivenza fisica e spirituale dei ceti subalterni schiacciati dai grandi potentati; dei precari della ricerca umiliati e offesi da un’attesa che dura una vita e non sbocca mai in un riconoscimento salariale e professionale; dei cassintegrati che non sperano di rientrare e che sanno che presto quel sussidio terminerà; dei licenziati con o senza “giusta causa”, che tanto non cambia nulla; dell’esercito vilipeso degli insegnanti, oggetto di infami campagne denigratorie e di disinformazione; degli operai perennemente sotto ricatto dal Marchionne di turno…
Né mi sembra più forte e persuasiva la parola d’ordine di Maurizio Landini che parla invece che di “difesa”, di “attuazione” della Costituzione. Ma ricordiamo che questa era la richiesta degli anni Cinquanta-Sessanta delle sinistre italiane? Almeno fino alla creazione delle Regioni (e non entro nel merito)… Possibile che non siamo in grado di trovare di meglio? Insomma, con tutto il rispetto, questa mi pare una frontiera arretrata.
Forse dovremmo giocare d’attacco, invece che in difesa. E che cosa può voler dire giocare d’attacco, oggi? Significa innanzi tutto incalzare i soloni dell’economia, mostrando le loro scempiaggini, la loro disonestà intellettuale, denunciando l’insostenibile subordinazione della politica all’economia, e la presentazione di questa come una scienza: una scienza esatta, oggettiva, che ha regole ferree alle quali nessuno – popoli, governi centrali, locali, sovranazionali… – si può sottrarre; per di più una scienza iniziatica, che noi profani (la cittadinanza nella sua interezza), non possiamo capire, e che dunque dobbiamo semplicemente accettare, nei suoi princìpi oscuri, nelle sue pratiche sacerdotali, nelle sue punizioni ineluttabili, nei suoi premi riservati a pochi fortunati. Imperscrutabile, ferrea, obbligatoria. L’economia così presentata, viene poi ulteriormente blindata sotto la magica e tremenda parola “l’Europa”. Ce lo chiede l’Europa. Lo impone l’Europa. E via seguitando.
Giocare d’attacco significa sbugiardare i Giavazzi e gli Alesina, con le loro cifre truccate e i loro suggerimenti devastanti, i Galli della Loggia e i Panebianco, con il loro pretenzioso e pericoloso “realismo” d’accatto. Significa fare un lavoro di lunga lena volto a smontare le false verità di una politica serva dei potenti, implica un’azione diffusa e capillare sul “territorio” capace di ascoltare le esigenze, le proteste, i bisogni di masse ingenti di popolazione. Significa uscire dal recinto del “popolo della sinistra” e parlare al ben più vasto “popolo dei referendum” (e prima ancora ascoltarne le voci).
Ma, poi, questo popolo della sinistra, possibile che non sia capace di ascoltare se stesso? Possibile che per tentare di uscire dal pelago in cui sta di nuovo soffocando, abbia bisogno di ricorrere a un manipolo di galantuomini liberali, e a un prete? Ma c’è Landini: mi direte. Naturalmente. Ma al di là del modello di sviluppo in cui (un po’ per dovere di “metallurgico”, forse) sembra continuare a credere (costruire automobili! Anche questa visione è passatista: il futuro è altrove, io credo, per l’Italia. Il futuro è nella tutela ambientale e paesaggistica, nelle nuove professioni che possono sorgere dalla valorizzazione del patrimonio archeologico, artistico, culturale, tanto per cominciare…), prima o poi Landini dovrà decidere che fare, e che non può a lungo continuare a stare in bilico tra il sindacato e la politica a tutto campo.
E poi, non stiamo di nuovo cadendo nell’errore di aspettarci da un uomo (o da un manipolo di uomini) la salvezza? Non ci è bastato Cofferati? Non ci è bastato Ingroia? A me pare che occorrerebbe rovesciare il discorso e la pratica. Zagrebelsky lo ha scritto egli stesso, mi pare. Non ci si può attendere da un uomo della Provvidenza il riscatto di un intero popolo. Si parla tanto, troppo, di democrazia partecipata. Ebbene, non vogliamo provare a metterla in atto, almeno “tra di noi”? Non sarebbe ora di provare a fare un processo inverso, ossia invece di individuare il leader, e chiedergli la linea, selezionare i gruppi dirigenti dal basso? La leadership, collettiva, occorre, certo. Ma va costruita secondo processi interni, attenti, trasparenti, partecipati, appunto.
Trasparenza. Vertici. Base. L’intervento di Paolo Ferrero a Roma, l’8 settembre, ha avuto la sua buona dose di applausi. E ho applaudito io stesso, per simpatia umana, ma dentro me mi dicevo: ma non era proprio lui a condurre, con pochissimi altri, quegli accordi di vertice contro cui sta tuonando ora? Ferrero si riferiva alla sciagurata avventura di “Rivoluzione Civile”. Dopo la quale mi sarei aspettato che egli stesso, e tutti gli altri responsabili dell’avventura finita così male, offrissero, in modo sincero, semplice e spontaneo, le dimissioni.
Mi sarei aspettato che lo stesso Ingroia, rinunciasse, avendo dimostrato di essere assolutamente inetto nel ruolo di leader, ferma restando la stima per l’uomo e l’apprezzamento per il magistrato. Mi sarei aspettato il famoso “passo indietro” suo e degli altri. Non c’è stato. E Ingroia ha cambiato solo il sostantivo, passando da “rivoluzionario” ad “azionista”. Ma vogliamo dire che tutto questo è patetico? Commetto un sacrilegio a dirlo? Come tanti altri, ho sostenuto e votato Ingroia, inutilmente mettendo in guardia nei mesi antecedenti le elezioni, sugli errori da evitare, che sono stati commessi tutti. Di quegli errori un Ferrero è stato parte corresponsabile. Con tutta la simpatia, non posso accettare che ora come se niente fosse venga a dirci che gli accordi di vertice non sono una buona cosa. E la platea applaude, e tace. E si avvia all’ennesimo circuito di speranza, forse di illusione, cui, v’è da temere fortemente, sopraggiungerà la disillusione.
Infine. Paolo Flores ha detto nel suo intervento all’assemblea che occorre dare vita a una manifestazione grande almeno quanto quella romana della primavera 2002. Due milioni di partecipanti. Forse tre. Non è una sfida esagerata? A quella manifestazione parteciparono anche una buona parte di coloro che oggi sono al governo con il nemico di allora. Flores afferma: la manifestazione non può fallire, anzi: guai se fallisse. Non è, ripeto, un impegno troppo forte? E, soprattutto, rimugino tra me e me sul senso delle manifestazioni di piazza. I referendum vinsero perché alle grandi manifestazioni fu associato uno straordinario lavoro capillare, secondo il modello del glorioso PCI. Si parlò con tutti, strada per strada, piazza per piazza, caseggiato per caseggiato. Si vinse per questa ragione. E si vinse perché quei referendum toccavano questioni “terra terra”: la terra, appunto, l’acqua, l’aria, innanzi tutto.
E allora, in conclusione chiedo: è saggio puntare tutto su una manifestazione? Se fallisce, che si fa? Tutti a casa a guardare Canale 5? E, chiedo anche, siamo sicuri che sulla “difesa” della Costituzione si possano mobilitare milioni di italiani e di italiane?
Le manifestazioni servono, senza dubbio. Ma non possono essere salvifiche, se non si accompagnano ad altro. Nel febbraio 2003, vi fu la più grande manifestazione di massa della storia dell’umanità: cento milioni, forse di più, di persone sfilarono per le strade di decine di Paesi, urlando No alla guerra che Bush stava minacciando a Saddam Hussein. Due settimane dopo la coalizione militare guidata dagli Usa attaccò l’Iraq. Non aspettiamoci dunque che anche milioni di manifestanti a Roma il 12 ottobre possano cambiare la rotta della politica italiana. E neppure salvare o far rinascere la sinistra. A meno che quell’evento non sia accompagnato e seguito da un lungo attento e profondo lavoro, capillarmente diffuso. E non sia seguito da un salto di qualità: l’organizzazione, e la creazione di una vera leadership.
Ieri, in una riunione del piccolo gruppo che ho creato a Torino, il “Movimento 2 Giugno”, qualcuno, pure meno dubbioso di me sulla manifestazione del 12 ottobre, ha detto: “purché non sia la solita discesa a Roma di ogni autunno. E poi ciascuno ritorna alle sue case, e alle sue cose. E nulla accade”. E, pur mettendo da parte i miei scrupoli sul modo di formazione della leadership, chiedeva: “ma, alla fine, ‘dopo’, i Rodotà, i Landini, gli Zagrebelsky, accetteranno di “guidare il movimento”?
Bisogna raddoppiare l’impegno, perché…
di Paolo Flores d’Arcais
Caro Angelo, non condivido la tua analisi, e cercherò perciò più avanti di risponderti punto per punto. Vorrei però muoverti un’obiezione più radicale: posto per ipotesi che tu avessi ragione su tutto, decidere di non partecipare sarebbe conseguente o non sarebbe comunque più logico raddoppiare i propri soggettivi sforzi perché la manifestazione riesca?
Questa è la prima volta che la Fiom prende l’iniziativa di una manifestazione squisitamente politica. In realtà l’iniziativa è di cinque persone “personalmente”, tre delle quali tuttavia vengono identificate ovviamente con tre organizzazioni: Fiom, Libera, Libertà e Giustizia. Ed è la presenza della Fiom la questione decisiva e inedita. Se la manifestazione non riuscisse sarebbe perciò la Fiom a pagare il prezzo più alto, in termini di immagine, di credibilità del suo gruppo dirigente, di peso contrattuale futuro, di fronte agli attacchi che non mancherebbero, a partire dal mondo sindacale, Cgil compresa (probabilmente dirigenza Cgil in primis). La cosa ti lascerebbe indifferente? Ti sentiresti tranquillo solo perché “lo avevamo detto”? O perché il futuro dello sviluppo produttivo possibile vedrà più salariati nel settore dell’ambiente e dei beni culturali e meno all’Ansaldo e all’Ilva? Un’iniziativa con cruciale presenza Fiom che finisse in un insuccesso sarebbe una sconfitta per tutta la democrazia italiana. Cioè, in tempi come questi, dove a difendere la “democrazia presa sul serio” non c’è più nessun partito, sarebbe una tragedia.
Ma cosa significa oggi un successo, per una manifestazione di piazza? E vengo con questo ai tuoi rilievi critici. L’8 settembre, nell’assemblea del teatro Frentani a Roma, ho sostenuto che si poteva/doveva indire la manifestazione a piazza san Giovanni. Quella piazza è stata riempita dalla Fiom tante volte, è stata stra-riempita dai girotondi undici anni fa, e poi due volte dal “popolo viola”, e una manifestazione che può mettere in campo accanto alla Fiom alcune decine di associazioni nazionali e una miriade di gruppi locali, parte già handicappata se non è animata dalla convinzione di poter riempire quella storica piazza.
Anche perché, dal punto di vista della mobilitazione potenziale (solo da questo, sia chiaro), la situazione odierna è perfino migliore di undici anni fa. L’indignazione e la rabbia sono cresciute a dismisura, la voglia di esprimerle pubblicamente e di lottare anche, e inoltre ogni giorno ad alimentare il bisogno di scendere in piazza ci pensano Berlusconi con le sue aggressioni eversive e il suo squadrismo mediatico, Napolitano con i suoi moniti a senso unico (tra politici delinquenti e magistrati, come Ponzio Pilato, quando va bene), Letta con il suo governo di inazione o di ferocia finanziaria contro ceti medi e popolari.
Questo potenziale di lotta, perché diventi mobilitazione reale, perché spinga centinaia di migliaia di cittadini in carne e ossa a sacrificare un week end e i costi di un viaggio, bisogna ovviamente catalizzarlo con motivazioni appassionanti, con obiettivi convincenti e trascinanti.
La Costituzione e la sua difesa non lo sono, dici. Dipende.
Non vale intanto l’obiezione che “realizzare la Costituzione” fosse uno slogan degli anni cinquanta/settanta. Se è per questo “liberté, égalité, fraternité” risale a quasi due secoli e mezzo fa, “giustizia e libertà” a oltre settant’anni fa, e mi sembra costituiscano obiettivi più che mai attuali e anzi “estremisti” rispetto al panorama delle forze politiche esistenti.
Naturalmente “realizzare la Costituzione”, se vuole essere un obiettivo mobilitante, deve costituire il coerente criterio con cui giudicare le vicende politiche di ogni giorno, e riconoscere “amici” e “nemici”, altrimenti rimane un vuoto richiamo rituale, un’innocua giaculatoria. Peggio che innocua, anzi, perché produce e giustifica il commento giovanile che hai citato.
Perciò, una manifestazione che venga preparata all’insegna di “realizzare la Costituzione” ha il dovere, giorno per giorno, di dire se sia nella logica di questa realizzazione, o nel suo opposto, il governo delle larghe intese, la nomina del Richelieu di Craxi alla Corte Costituzionale, il monito del Colle ai giudici sotto aggressione squadristica berlusconiana, la grassazione di establishment (e bipartisan) di Telecom, Alitalia e altri beni, la sintonia di amorosi sensi tra Marchionne e Letta jr in trasferta americana, e tutte le altre picconate alla dimensione “giustizia e libertà” della Costituzione repubblicana che eventualmente verranno inferte (speriamo di no!) da Palazzi, Colli e Partiti da qui al 12 ottobre.
Non a caso, l’8 settembre ai Frentani ho annunciato che il sito di MicroMega avrebbe cominciato a sostenere la manifestazione fin dal giorno dopo, con un titolo/count down a tutta pagina, che articolava la “realizzazione della Costituzione” nel senso di “seppellire il regime ventennale del berlusconismo, degli inciuci, del marchionnismo, delle larghe intese”.
A me questo sembra proprio quel “giocare d’attacco” che tu giustamente ritieni ineludibili per un’azione politica efficace (e tanto più per motivare le persone a scendere in piazza). Nulla è più illusorio, infatti, che confondere la necessità di essere inclusivi, cioè di mobilitare le più larghe masse possibili, con l’essere “ecumenici”, cioè ridurre gli obiettivi al minimo comune denominatore condiviso da cento sigle, in una genericità che ottiene il risultato opposto, non mobilitare nessuno se non il giro stretto dei militanti.
Tu poni anche il problema del dopo-12 ottobre. Avremo modo di tornarci, anche se ti dico subito che mi sembra alquanto irrealistico pensare che una forza politica rappresentativa (anche alla urne) della nostra AltraItalia possa nascere per aggregazione molecolare, dal basso. Credo piuttosto che il suo potenziale, creato dal basso da mille lotte, abbia bisogno di un big-bang e di un leader riconosciuto. Dovremo tornarci a lungo e approfonditamente, è il problema a cui non riusciamo a dare soluzione da vent’anni, benché tutti consapevoli che sia il problema.
In quali condizioni pratiche lo affronteremo, però, dipenderà anche dal grado di successo della manifestazione. Se nel clima di golpe strisciante berlusconiano, piazza del Popolo non deborderà di cittadini su piazzale Flaminio e via del Corso, bisognerà riconoscere il fallimento e analizzare cosa abbia paralizzato una mobilitazione potenzialmente enorme. Ma non vedo perché si dovrebbe cincischiare ora su un’eventuale sconfitta, anziché dare il proprio contributo senza risparmio alcuno di energia e passione civile, perché la manifestazione riesca al meglio. Agire altrimenti significa entrare nella logica delle profezie pessimistiche che si autoverificano. MicroMega con il suo sito è impegnata allo spasimo nella direzione opposta, raccoglie ogni giorno interviste di motivata adesione delle personalità più diverse, cioè delle sensibilità più diverse (dalle più “caute” alle più “radicali”, se dovessimo piegarci alla vulgata giornalistica), offre il suo sito a tutti gli strumenti di auto-organizzazione, e soprattutto cerca di alimentare la concretezza del “realizzare la Costituzione” con gli esempi quotidiani di violazione e negazione, e viceversa di impegno e lotta: senza fare sconti a nessuno, meno che mai a “sinistra”.
Il grado di partecipazione popolare e di pathos della manifestazione avrà un’influenza fortissima sull’andamento della crisi che proprio oggi così violentemente si accelera. Può averlo positivamente o negativamente, dipende anche dal nostro impegno, dalla chiarezza con cui dal palco, e nei giorni di preparazione, si dirà senza reticenze cosa e chi si contrapponga, per opere e per omissioni, alla realizzazione della Costituzione. So che qualcuno pensa che sarebbe realistico declinare già questo mio “può” come “potrebbe” o addirittura “avrebbe potuto”, io preferisco impegnarmi senza risparmio – senza ovviamente mettere la sordina alle critiche per gli errori che vengono commessi – perché resto convinto che solo “finché c’è lotta c’è speranza”.