di Luigi Pandolfi
Parlare di Calabria e dei suoi problemi è sempre un esercizio difficile per un calabrese. Il rischio di incorrere nella retorica, nel vittimismo e nei luoghi comuni è sempre dietro l’angolo.
Ma tacere o tergiversare? Significherebbe cedere ad una sorta di autoinganno: “I meridionali inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l’accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello”, sarebbe stata la conclusione di Corrado Alvaro.
Ma cos’è la Calabria oggi? Un po’ quella di sempre, sui cui mali endemici la speciale crisi pandemica che stiamo vivendo sta agendo, tuttavia, alla stregua di un facilitatore della comprensione (e da detonatore): ci siamo perfino accorti, dopo essere stati dichiarati “zona rossa” non certo per numero di contagi, che la nostra sanità è una casa dei pericoli, che senza la valvola di sfogo dell’emigrazione sanitaria siamo due milioni di topi in trappola, che i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) alle nostre latitudini sono poco più che un’espressione lessicale.
E che questo disastro ce lo troviamo spiattellato davanti, nonostante dieci anni di commissariamento del comparto, che non è servito né a togliere i debiti né a migliorare l’assistenza.
Nuove emergenze che impattano su vecchi problemi, aggravandoli drammaticamente. A cominciare dal problema del lavoro e del reddito. Prima della pandemia, con un tasso di disoccupazione al 21% (giovanile al 41%), eravamo a metà classifica tra le quindici regioni europee con il maggior numero di disoccupati.
Adesso dove siamo? Diciamolo con le parole di Bankitalia (Rapporto annuale sulle economie regionali): “Il deterioramento delle prospettive occupazionali ha colpito un contesto fragile, contraddistinto da tassi di occupazione molto bassi nel confronto nazionale. Perciò, anche per la mancanza di occasioni lavorative, i livelli di diseguaglianza e povertà sono superiori al resto del Paese”.
D’altro canto ci sarà pure un motivo se oltre 200 mila persone, a oggi, beneficiano del Reddito di Cittadinanza, su una popolazione di 1 milione e novecentomila abitanti.
E la ‘ndrangheta? C’è sempre, controlla il territorio, ha le mani nella sanità, investe nelle costruzioni, nel settore immobiliare, nei servizi, nelle energie rinnovabili, ovviamente nel turismo. E fa politica. Insomma, la Calabria rimane ancora la sua prima base operativa, nonostante il fenomeno della “delocalizzazione” di una serie di attività criminali in altre regioni, a cominciare dalla Lombardia.
Crisi sanitaria, crisi sociale, crisi ambientale, crisi e discredito della politica: una miscela esplosiva, che chiama rabbia e rassegnazione, fatalismo e qualunquismo, ma anche una domanda di soluzioni concrete e “competenti” ai problemi che ci attanagliano (un tempo, prima che il termine venisse rovesciato nel suo significato, avremmo parlato di “riformismo”).
Evidentemente non abbastanza e non sufficientemente importante per chi aveva pensato di portarci in fretta e furia al voto il 14 febbraio. In piena emergenza sanitaria, con le forze non rappresentate in parlamento costrette a raccogliere le firme per le proprie liste in regime di lockdown. Disprezzo per gli elettori, sfregio alla democrazia, risposta insolente e arrogante alle inquietudini e alle aspettative dei calabresi.
Sennonché, i fatti si sono incaricati di dimostrare quanto aberrante fosse questa pretesa, ma c’è voluta anche una mobilitazione dal basso, di una parte della politica, di nuovi movimenti, perché il “facente funzione” Nino Spirlì facesse marcia indietro.
Si voterà l’11 aprile, pandemia permettendo. Affermare che i calabresi siano pronti a sferrare un calcio nel sedere a chi ha (s)governato la regione negli ultimi decenni è da ingenui: senza alternative credibili, al netto dell’astensione, il voto finirà per spalmarsi sulle “offerte” che troverà stampate sulla scheda elettorale. Conteranno “appartenenze”, “clientele” e condizionamenti di ogni tipo, come sempre. Poi, magari, il giorno dopo tutti di nuovo ad imprecare contro la “politica” e contro i politici che “sono tutti uguali”. Ma questo è.
Quindi non c’è che rassegnarsi? No, ma il “cambiamento” non è un prodotto del voto in quanto tale. Va costruito a monte del momento elettorale. È responsabilità delle classi dirigenti – non spaventi questa espressione, tutte le rivoluzioni sono state concepite da élite politiche e intellettuali! – aprire la strada a percorsi di partecipazione consapevole alla vita pubblica e mettere gli elettori nella condizione di poter scegliere, oltre a programmi innovativi, candidati di rottura con il passato, liberi da ogni condizionamento affaristico-mafioso.
E con questo spirito che ho aderito all’appello dei cosiddetti “140 per una Calabria Aperta”. Un manifesto rivolto alle forze democratiche e progressiste della nostra regione e, al contempo, un laboratorio politico che, almeno in questa fase, è riuscito a svegliare tante coscienze critiche sopite dal Pollino allo Stretto. Attivisti politici e sindacali, militanti storici della sinistra, intellettuali, artisti, giornalisti, associazioni e movimenti, che si sono ritrovati per dare uno scossone alla politica calabrese e liberarla dalla maledizione dell’ “eterno ritorno dell’uguale”.
Su quali discriminanti? “È la realtà a indicare la strada e a scrivere l’agenda”, abbiamo scritto nell’appello. Niente di più banale, ma in questa fase la cosa più “rivoluzionaria” che si potesse dire. E la realtà impone che al primo posto ci siano i diritti costituzionali alla sanità, al lavoro, all’istruzione e alla mobilità da assicurare, il contrasto ad ogni progetto di “autonomia differenziata” (ultimo approdo del secessionismo leghista) da perseguire con vigore, la lotta intransigente alla criminalità mafiosa da rilanciare, l’ambiente da proteggere e da risanare.
Cose “normali”, insomma. Perciò “rivoluzionarie”, visto il contesto.
Ma anche – o soprattutto – un cambiamento di nomi e di volti. Percepibile, apprezzabile. A cominciare dal nome e dal volto del candidato alla presidenza. D’altro canto, che credibilità avrebbe un progetto di cambiamento se a rappresentarlo fossero personalità ripescate dalla palude delle più discusse e discutibili stagioni politiche e di governo degli ultimi anni?
Come è andata finora? Abbiamo indicato la luna, ma i nostri principali interlocutori hanno preferito guardare il dito. Proveremo a essere più chiari e convincenti nei prossimi giorni, sperando che a Roma la Calabria non sia stata già data per persa. Non solo elettoralmente.