di Antonia Romano
Ormai sono decenni che la scuola italiana si caratterizza per l’introduzione di nuove sigle, di nuovi acronimi. Non poteva essere diverso nell’anno della pandemia. Ecco dunque che al primo lockdown abbiamo dovuto imparare a organizzare la didattica disciplinare attraverso la DAD, didattica a distanza, e, a seguire, con l’avvio del nuovo anno scolastico, flagellato anch’esso dalla pandemia, abbiamo imparato a organizzarci attraverso la DDI, didattica digitale integrata. Il tutto è avvenuto in condizioni di emergenza, di urgenza e di rapidità che mal si accompagnano a mutamenti ragionati dell’insegnare e dell’apprendere e poi, si sa, i tempi rapidi non sono compatibili con la lentezza pachidermica della scuola italiana.
La DAD ha colto di sorpresa tutte le persone coinvolte: dirigenti, docenti, studenti, studentesse e famiglie. Chiudere gli edifici scolastici alla frequenza giornaliera e lasciare che la scuola procedesse solo attraverso modalità online è stato come un fulmine a ciel sereno, che, con il suo bagliore, ha posto in luce tutte le criticità della scuola italiana in un momento di forte coinvolgimento emotivo. La troppo spesso e spesso esageratamente vituperata DAD ha tolto il velo opaco che copriva la nostra scuola pubblica, rivelando d’un colpo le crepe.
L’utilizzo di ambienti virtuali di condivisione di materiali non era entrato nella routine scolastica, nonostante fossero anni che gli strumenti erano disponibili e che corsi di formazione venivano attivati. Eppure la cultura digitale fa parte delle competenze che la scuola deve contribuire a sviluppare ed è definita ineludibile dalle normative. Tutti i bambini e tutte le bambine d’Europa dovrebbero trascorrere del tempo a scuola esercitandosi con PC o tablet. Non è un optional, non è facoltativo come non lo è imparare a leggere e a scrivere.
Il ricorso alla metodologia del capovolgimento della classe con utilizzo della rete per fare sintesi tra molteplici fonti, favorendo lo sviluppo di senso critico e l’attitudine alla ricerca, è ancora patrimonio di poche realtà e fatica a decollare in contesti in cui la familiarità dei ragazzi e delle ragazze con le tecnologie informatiche si limita all’utilizzo dei social, in particolare instagram e tik tok, perché, come dicono alcuni miei alunni, ormai facebook è roba da cinquantenni.
A me è capitato di insegnare in Calabria in una classe in cui nessun alunno, nessuna alunna aveva un PC a casa e, guarda caso, la scuola non era dotata di laboratori di informatica né tantomeno di connessione a internet. Troppe sono ancora le scuole del primo ciclo di istruzione che, soprattutto nel sud Italia, non hanno le risorse utili per sviluppare competenze in ambito tecnologico. E se in contesti culturalmente poveri la scuola non fa passare il messaggio che le tecnologie informatiche, opportunamente utilizzate per la didattica, possono essere occasione preziosa per aiutare l’emancipazione e la crescita culturale, le famiglie non sono stimolate ad avere in casa almeno un PC.
È vero, le scuole hanno ormai tutte la LIM, ma troppe volte questo strumento ha semplicemente sostituito la lavagna e/o la TV con annesso lettore di VHS prima, di Dvd poi, che veniva spostata da un’aula all’altra per consentire la visione di film o documentari necessari per integrare l’insegnamento. Lo stesso apprendimento dell’uso di strumenti informatici per lo studio e la formazione non ha avuto lo sviluppo che si poteva prevedere anche alla luce dei rapporti DigComp 2.0 (2016) e DigComp 2.1 (2017). Eppure il Documento a cura del Comitato Scientifico Nazionale per le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, pubblicato nel 2018 e scaricabile dal sito del Miur, riporta testualmente “…Nei contesti attuali, in cui la tecnologia dell’informazione è così pervasiva, la padronanza del coding e del pensiero computazionale possono aiutare le persone a governare le macchine e a comprenderne meglio il funzionamento, senza esserne invece dominati e asserviti in modo acritico. Questi aspetti ed altri connessi allo sviluppo tecnologico, sono considerati dalle Indicazioni 2012 nel paragrafo dedicato alla Tecnologia: (…) Quando possibile, gli alunni potranno essere introdotti ad alcuni linguaggi di programmazione particolarmente semplici e versatili che si prestano a sviluppare il gusto per l’ideazione e la realizzazione di progetti (siti web interattivi, esercizi, giochi, programmi di utilità) e per la comprensione del rapporto che c’è tra codice sorgente e risultato visibile”.
Non aver sufficientemente creduto nell’importanza del supporto alle lezioni in presenza, di attività realizzate utilizzando strumenti informatici anche in modalità asincrona, non aver creduto nelle potenzialità delle tecnologie per la didattica, aver relegato troppo spesso a progetti PON la cui ricaduta sul curriculum reale dell’intera classe è piuttosto discutibile, aver posto l’accento prevalentemente se non esclusivamente sui rischi e sui pericoli della rete, non aver investito in aiuti in termini di risorse economiche ma anche formative alle famiglie perché introducessero nelle loro case strumenti tecnologici e non aver dotato il paese in modo omogeneo di possibilità di connessione forte e gratuita, non ha permesso di creare le condizioni per affrontare la DAD in modo efficace per tutti, per tutte, per ciascuno, per ciascuna.
Illudersi di poter riproporre, nell’emergenza pandemica, attraverso le piattaforme a disposizione della DAD le pratiche didattiche della scuola in presenza, riproducendo attraverso le videolezioni lo stesso schema didattico dell’aula scolastica, ha reso spesso l’approccio alla DAD pesante e poco coinvolgente con l’aggravante di non avere una dotazione omogenea in termini di connessione e strumenti. La DAD deve necessariamente svilupparsi attraverso il ricorso a metodologie diverse, che rendano chi apprende protagonista attivo del processo di apprendimento e ne sviluppi un forte senso di responsabilità. La DAD richiede una puntuale ricerca di materiali, una puntuale organizzazione dell’azione didattica, che sia sincrona e anche asincrona, un’efficace combinazione di diversi mediatori di apprendimento con uno sforzo in termini di ricerca e di progettazione da parte dell’insegnante che viene quasi sempre ignorato da chi continua a pubblicare articoli o a proporre interventi pubblici sulla scuola, demonizzando nella maggior parte dei casi la DAD, continuando a esprimersi in termini di chiusura/riapertura delle scuole, offrendo così una falsa immagine della realtà: le scuole non sono chiuse, le scuole sono diversamente e attivamente aperte.
Certo, molti problemi sono ancora irrisolti e non potrebbe essere diversamente, date le condizioni in cui si è introdotta questa nuova pratica. Il rischio di classismo della scuola che forma attraverso le tecnologie informatiche e a distanza fisica emerge tutto. Non si può negare che hanno tratto maggior vantaggio formativo gli alunni e le alunne appartenenti a famiglie che già avevano un approccio valoriale positivo allo studio, alla formazione, alla crescita culturale e una maggiore disponibilità economica che ha favorito, indipendentemente dalla scuola, l’utilizzo di strumenti informatici e l’accesso più critico alla rete. Chi appartiene a un livello socio – economico – culturale medio alto sicuramente ha colto gli aspetti positivi della DAD. Chi appartiene a contesti familiari e sociali svantaggiati dal punto di vista economico e culturale ha subito svantaggio formativo se non addirittura esclusione. La principale criticità della DAD è dunque l’inclusione, che non è favorita come potrebbe accadere in una classe in presenza e che coinvolge tutto il mondo variegato del BES, bisogni educativi speciali, tra cui non fatico a includere chi vive in condizioni economicamente, socialmente, culturalmente disagiate.
Sicuramente la DAD non dovrà, non potrà, sostituire la didattica in presenza. Nulla può sostituire il valore aggiunto dell’essere dentro uno stesso spazio insieme, del condividere emozioni e vivere e risolvere conflitti insieme, del respirare la stessa aria, del collaborare attivamente per un traguardo comune. Ma non possiamo più continuare a ignorare la necessità di integrare la didattica in presenza con forme di didattica a distanza, che garantiscano però inclusione ed equità e che prevedano un fortissimo impegno da parte del ministero per la formazione del personale docente e un fortissimo impegno da parte del governo affinché ogni famiglia sia dotata di tutte le risorse necessarie per consentire a figli e figlie di studiare in un contesto moderno.
I sistemi scolastici sono pronti solo in parte all’innovazione digitale: nell’indagine Talis 2019 si è riscontrato pessimismo al riguardo, così mentre a Singapore si dichiara pessimista solo il 2% dei dirigenti scolastici, in Italia e in Francia salgono al 30%. Solo il 60% dei docenti e delle docenti ha dichiarato di avere ricevuto formazione in proposito (e solo il 36% aveva seguito corsi on line), mentre il 18% dichiarava di sentirne una notevole necessità. Inoltre nella formazione prevale ancora largamente la partecipazione in presenza a corsi e seminari, piuttosto che lo sviluppo collaborativo, l’auto-osservazione e il coaching.
Non possiamo pensare che questa pandemia non lasci uno strascico, che considero positivo o comunque considero ad alta potenzialità per ciò che riguarda l’adeguamento della scuola italiana alle esigenze di apprendimento dei nostri alunni e delle nostre alunne, non più soddisfatti da un’impostazione della scuola come luogo di apprendimento formale e troppo spesso di insegnamento che segue nella gran parte dei casi schemi e rituali rigidi, incompatibili con la fluidità della società attuale.
Sono anni che negli ambienti pedagogici accademici seri si sostiene l’importanza di rendere la scuola italiana capace di rispondere alla crisi mondiale dei modelli educativi tradizionali. La nostra scuola, tormentata da numerose e spesso inutili pseudoriforme affidate a ministre e ministri sulle cui incompetenze nell’ambito del proprio dicastero nessuna persona di buon senso può avere dubbi, si basa su un modello trasmissivo – ripetitivo con eccessivo ruolo attribuito ai libri di testo, la cui impostazione enciclopedica contribuisce e sostenere e mantenere in essere il modello.
La scuola italiana è fanalino di coda in Europa per abbandono scolastico e il nostro Paese ha il terribile record di NEET, come si evince dai dati del rapporto EUROSTAT aggiornato a tutto il 2018. L’Italia si conferma al primo posto in Europa per numero di giovani che non lavorano né studiano, i cosiddetti Neet. Più di un giovane su quattro (tra i 20 e i 34 anni) è fuori dal mercato del lavoro, e non perché nel frattempo stia proseguendo la propria formazione magari a livello universitario (in quello siamo anzi maglia nera: solo la Romania ha meno giovani laureati di noi). E’ fuori e basta. Disoccupato e inattivo (o se lavora, lavora in nero…). Una percentuale quasi doppia di quella media europea, dove i Neet sono uno su sei (il 16,9%): in tutto 15 milioni di giovani che sono a spasso.
Che ci sia una crisi profonda della scuola pubblica italiana è evidente e questi dati si riferiscono a periodi in cui l’unico modo di frequentare la scuola era in presenza. Se la DAD non può sostituire la didattica in presenza, non possiamo nasconderci che la stessa didattica in presenza già non funzionava più così bene. Soprattutto la scuola italiana non è riuscita a essere equa, non ha ridotto il tasso di abbandono, non ha saputo costruire terreno fertile per sviluppare autodeterminazione, autonomia, autoregolazione, componenti essenziali della qualità della vita. Il delirio ipervalutativo, innescato dalla corsa al primato in improponibili classifiche conseguenti a valutazioni nazionali e internazionali sugli apprendimenti, ha avuto come più evidente conseguenza la costruzione di un individualismo competitivo ben adeguato alla società del consumismo, del capitalismo degenerato in cinica finanziarizzazione dell’economia. Il rischio di perdere la dimensione collettiva della classe è presente da molto tempo e da prima della pandemia.
Molti problemi che la DAD ha brutalmente sbattuto davanti ai nostri occhi, nella scuola erano presenti da tempo così come tutte e tutti credo che siamo consapevoli che la didattica in presenza non sia il contrario della distanza, che la distanza fisica non voglia necessariamente dire distanza di relazione, così come la vicinanza fisica non voglia dire vicinanza di relazione, che un apprendimento efficace si costruisce su relazioni positive tra pari e con l’insegnante e che non c’è garanzia di relazioni positive nella presenza in aula, che gli strumenti della tecnologia adeguatamente utilizzati a servizio di un apprendimento cooperativo, attivo e costruttivo hanno potenzialità che non sono in antitesi con un modello di scuola/comunità capace di dialogare e collaborare anche a distanza, se e quando necessario.
Occorre ora, ora che la pandemia ci impone il dovere di ripensare la scuola pubblica, interrogarsi sui possibili scenari futuri, ridisegnare il ruolo della scuola pubblica italiana interrogandosi su quali saranno gli effetti della didattica a distanza sulle metodologie didattiche e sulle pratiche valutative, sul rapporto scuola – famiglie e sul ruolo della società nell’esercizio delle diverse funzioni educative, sui confini ormai abbattuti tra apprendimento formale e non formale, sul rischio altissimo della de-istituzionalizzazione della scuola ed eventualmente su come gestire questo processo senza perdere di vista il vero ruolo della scuola pubblica, che è costruzione di cittadinanza attiva e responsabile.
Intanto l’Europa prepara l’European Framework for Personal, Social and Learning to Learn Key Competence, che si basa su nove concetti chiave: autoregolazione, flessibilità, benessere, empatia, comunicazione, collaborazione, mentalità di crescita (traduzione letterale di Growth mindset), pensiero critico, gestione del proprio apprendimento. E forse noi, piuttosto che protestare per un ritorno al passato, dovremmo lottare perché si ridefinisca una nuova grammatica della scuola, se con ciò intendiamo, citando Yong Zhao, la “pratica organizzativa standardizzata di divisione del tempo e dello spazio, di classificazione degli studenti, della loro distribuzione nelle aule e di suddivisione delle conoscenze in singole discipline“ e ripensare al ruolo stesso della scuola come comunità educante e mai più solo agenzia formativa.