di Luigi Pandolfi
L’Eurogruppo torna a riunirsi in un clima di grande incertezza. Ma la realtà incalza: servono «soldi veri» per scongiurare il collasso dell’economia. Dopo il lockdown, milioni di persone rischiano di finire per strada non per godersi la ritrovata libertà di movimento, ma perché nel frattempo avranno perso il loro lavoro.
Il tema è spinoso, perché richiama tutti i difetti dell’attuale modello di integrazione. C’è una disciplina di bilancio che riguarda tutti, ma ciascun Paese se la vede da solo col proprio debito. «L’Unione e gli Stati membri non sono responsabili dei debiti di un altro Stato membro. I debiti rimangono esclusivamente dello Stato che li ha contratti», recitano i Trattati. E se uno Stato membro rischia il default? In tal caso c’è la cassaforte del Fondo Salva Stati, che i soldi, però, li dà soltanto alla condizione che il Paese richiedente rinunci alla sua sovranità e accetti pesanti vincoli di bilancio. C’è una logica. Questi prestiti sono formalmente assimilati al regime creditizio del settore privato. Gli «strumenti di sostegno», in pratica, vengono utilizzati dal Mes «nella prospettiva del creditore», valutando la capacità di rimborso del debitore, i livelli di remunerazione del capitale e gli altri rischi dell’operazione di finanziamento. Sembra il rapporto tra una banca commerciale qualunque e i suoi clienti. Con una differenza: le banche commerciali non pretendono di decidere quante volte al giorno possono mangiare i loro mutuatari.
Per questo certi entusiasmi di fronte alla cosiddetta «sospensione» del Patto di stabilità appaiono ingiustificati, come le aperture – da ultimo il Commissario agli Affari Economici Gentiloni che spera in un «buon accordo» – ad un «alleggerimento» delle condizionalità del Mes. Il combinato disposto di recessione e aumento dell’indebitamento netto porterebbe rapidamente alcuni Paesi, a cominciare dall’Italia, verso un notevole dilatamento del rapporto debito/pil. E ciò, nel quadro dell’attuale governance europea, potrebbe rivelarsi presto un problema. Passata l’emergenza, la «flessibilità» di bilancio finirebbe per lasciare il posto all’aggiustamento «obbligato» dei conti pubblici. Il Fiscal Compact, che non va in soffitta, è chiaro al riguardo: «Le parti possono deviare dal loro obiettivo di medio termine solo in circostanze eccezionali», ovvero in presenza di «eventi inconsueti non soggetti al loro controllo», purché la deviazione temporanea «non comprometta la sostenibilità del bilancio». In caso contrario, «è attivato automaticamente un meccanismo di correzione». Il «pilota automatico» di cui parlava Mario Draghi.
E’ quello che paventano, a ragione, alcuni Paesi, tra cui l’Italia. La loro proposta, infatti, è quella di adottare uno «strumento di debito europeo». Si tratterebbe di un passo in avanti, perché, almeno, ci sarebbe una sorta di condivisione dei rischi. Ma non è l’unica strada percorribile. Raccogliere i soldi sul mercato – anche il progetto «Sure» lanciato dalla Von Der Leyen va in questa direzione – significa affidare la cura della malattia che ha colpito inopinatamente il capitalismo mondiale ai rentiers della finanza, il cui unico obiettivo è il massimo profitto nel minor tempo possibile, non certo il benessere dei cittadini.
Il denaro di banca centrale è oggi una risorsa illimitata, come dimostrano nell’ambito europeo il Qe e lo stesso piano da 750 miliardi appena varato dalla Bce. Misure eccezionali che le circostanze hanno reso ormai permanenti, anche fuori dai confini europei. Il salto di qualità, adesso, consisterebbe nel finanziamento monetario dei deficit aggiuntivi. La Bce, per il tramite delle banche centrali nazionali, dovrebbe acquistare direttamente titoli pubblici emessi dagli Stati membri. Obbligazioni a tasso zero e senza scadenza, che non creerebbero nuovo debito da ripagare.
Si dirà: ma le attuali regole europee vietano «l’acquisto diretto di titoli di debito da parte della Bce o delle banche centrali nazionali». Ma anche il bazooka di Draghi era un un’intervento «non convenzionale», come del tutto eccezionali sarebbero state le cosiddette «operazioni monetarie definitive» annunciate nel 2012, che prevedevano, con condizionalità, proprio l’acquisto diretto di titoli di Stato a breve termine «emessi da Paesi in difficoltà grave e conclamata». Peraltro, non dobbiamo mai dimenticare, parlando di queste cose, che in Italia, il «divorzio» tra Tesoro e Banca d’Italia nel 1981 non avvenne con un atto del parlamento o del governo, ma semplicemente con uno scambio epistolare tra l’allora ministro Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, che a quel tempo era a capo dell’istituzione di Via Nazionale. Ma poi ci sono i principi generali dell’ordinamento europeo. Ed oggi non si può «promuovere la coesione economica, sociale e territoriale» o «combattere l’esclusione sociale e promuovere la protezione sociale» senza derogare ad alcuni precetti.