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L’utopia necessaria di un’Europa politica federale. Intervista con Bellofiore e Garibaldo

Intervista con Riccardo Bellofiore* e Francesco Garibaldo**, autori, insieme a Mariana Mortàgua***, del libro “Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea” (Ediz. Rosenberg & Sellier, 2019).

di Luigi Pandolfi

Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea è il titolo del vostro libro da poco uscito per i tipi di Rosenberg & Sellier. A quanto pare, il volume sta riscuotendo un certo successo. E’ il segno di un ritrovato interesse nel nostro Paese per la “questione europea”?

Riccardo Bellofiore

La discussione italiana è stata decisamente deludente. Si è prodotta una divisione tra chi ha ritenuto che la questione fosse una difesa acritica della costruzione europea così com’è e chi invece ritiene che soltanto una uscita dall’euro se non addirittura una rottura dell’unione europea siano condizione necessaria, se non addirittura sufficiente, di una praticabilità di politiche progressiste. Negli ultimi mesi si è diffusa l’illusione che tutte le forse politiche e sociali stiano dando l’euro e l’unione per scontate, ma non è così. Si ritiene da alcuni tra gli agenti significativi, da un lato o dall’altro, e non a torto, che sarà lo spontaneo acuirsi dei problemi a imporre scelte secche. Il successo del volume è forse il sintomo di una mancanza: si accoglie, finalmente?, con favore un discorso fuori dai confini esistenti, dai canoni conosciuti, dalle posizioni precostituite. In fondo, cerchiamo di mettere al centro del discorso due temi incredibilmente trascurati, la dimensione transnazionale della finanza e la dimensione transnazionale dell’industria, che sono cresciute a dismisura negli ultimi vent’anni. Per questo, crediamo, anche chi non è d’accordo con noi, dovrebbe trovare contributi utili alla comprensione della realtà che ci sta di fronte.

L’euro compie vent’anni. Il compleanno cade in un momento di estrema incertezza sul futuro dell’Europa. Un po’ ovunque avanzano forze che, semplificando, chiamiamo “sovraniste”, anche i partiti europeisti, di vario segno politico, insistono sulla necessità di un cambiamento dell’attuale modello di integrazione. Cosa c’è che non va negli attuali assetti istituzionali dell’Unione e nella stessa “architettura” della moneta unica?

Francesco Garibaldo

La domanda è ovviamente troppo ampia perché sia possibile rispondervi in poco spazio, e per una risposta esauriente non possiamo che rimandare al volume. Diciamo che vi sono, tra gli economisti almeno, due tendenze: una che insiste sul fatto che i problemi originano in maniera essenziale dagli squilibri nelle bilance delle partite correnti, e chi invece insiste che il problema sta nella architettura istituzionale data alla moneta unica. A noi pare che la prima linea, nella sua forma estrema, puramente e semplicemente non abbia senso: è evidente che ritenere che sia possibile una classica crisi della bilancia dei pagamenti all’interno dell’area euro equivale a negare sin dall’inizio il principio di una moneta unica: per dire, non si guardava alla bilancia commerciale delle regioni tedesche, e non lo si faceva neanche all’interno dell’unione monetaria lira, così come non si guarda alla bilancia commerciale dei vari stati negli Stati Uniti. Ciò non significa negare gli effetti reali degli squilibri nelle esportazioni/importazioni nette dell’area, i quali possono corrodere le basi dell’unione, esattamente perché non si è prevista la costruzione di un autentico bilancio europeo con una capacità di spesa significativa, o misure redistributive tra le regioni europee, o una vera unione bancaria, o politiche selettive del credito, o politiche industriali. Sono problemi che esistono dall’origine dell’unione monetaria, dentro un progetto dell’euro che è nato con delle falle radicali. Non si richiede una riforma, ma una rivoluzione, che però non può ormai che darsi dall’interno, per ragioni sociali e storiche, visto che si è perso il treno di una diversa unificazione monetaria, sul genere di quella proposta da Keynes nel 1944 a Bretton Woods. Un discorso, si badi, che facciamo anche se noi stessi eravamo dubbiosi sulla scelta di entrare nell’euro a fine Novanta,  addirittura favorivamo, quando era ancora una possibilità, il progetto di moneta comune proposto da Suzanne de Brunhoff e Jacques Mazier. C’è però qualcos’altro che va tenuto presente, e che rimanda ad una rivoluzione intellettuale che è agli inizi, analoga alla svolta che portò Keynes negli anni Trenta del secolo scorso. Ne parla Adam Tooze nel prologo al suo libro Crashed, recentemente tradotto da Mondadori. Il quadro interpretativo della macroeconomia forgiato tra prima e seconda guerra mondiale è organizzato attorno a stati-nazione, sistemi produttivi nazionali, e squilibri commerciali. La crisi del neoliberismo non può riportare a Keynes, per la semplice ma decisiva ragione che, se è ancora valido l’accento sulla domanda effettiva come traino della produzione, non lo è più un modello il cui asse sarebbero ‘isole’ separate che entrano in relazioni commerciali e finanziarie. Quel modello è sostituito da un mondo sempre più alla Minsky e alla Marx, con bilanci e conti finanziari interconnessi, e catene del valore spalmate su varie nazioni. Nel caso di moneta e finanza è palmare che si vive non in uno stato minimo ma in un terreno dove conta al massimo l’interesse politico e l’interventismo. In questo mondo, come mostriamo nel libro, l’uscita dall’euro avrebbe effetti ambigui e imprevedibili, probabilmente controproducenti. C’è ragione di ritenere che l’Italia, allo stato delle cose, non ne guadagnerebbe né dal lato finanziario né da quello produttivo. Il problema è che, dentro o fuori l’euro, la politica, e forsanche il sindacato, non è cosciente di queste dinamiche.

Eppure, nonostante i problemi, sono molto di meno rispetto a qualche anno fa quelli che invocano apertamente la fine dell’euro o la fuoriuscita unilaterale del proprio Paese dall’Unione monetaria. Prevale l’idea che l’Europa “si può cambiare dall’interno”, anche in Italia, anche tra i populisti di destra. Forse che sia la particolare congiuntura dell’economia mondiale (rallentamento, bolle sui mercati finanziari, rischio di una nuova recessione) a suggerire una maggiore prudenza, preferendo un ombrello grande di fronte al rischio di una nuova tempesta?

Come abbiamo detto, pensiamo che sia più una parvenza che qualcosa di reale, e questa apparente calma si scioglierà come neve al sole ben presto. Il populismo di destra è fatto di tante realtà nazionali, o persino regionali, che dovranno giocare presto l’una contro l’altra: tra l’altro, una uscita dall’euro o una svolta populista determinerà più austerità, non meno, e una drammatica spinta verso una destra sempre più nazionalista, razzista, anti-femminista, violenta, autoritaria. Ma non illudiamoci che possa essere un populismo di sinistra a salvarci: al contrario, sta spianando la strada al prodotto originale, e prelude ad un nuovo tradimento degli intellettuali. Come scriviamo nel libro, le contraddizioni dell’euro potrebbero portare ad una morte per consunzione, ma le contraddizioni sociali e politiche dietro il cosiddetto populismo stanno drammaticamente accelerando dinamiche dissolutorie.

Facciamo un passo indietro. La crisi del 2007-2008 è stata una crisi “globale”. Partita dagli Stati Uniti d’America, ha finito per contagiare, con poche eccezioni, l’intera economia mondiale. Si potrebbe dire che la stessa ha posto due questioni, fondamentalmente: i limiti e l’insostenibilità di un modello di accumulazione capitalistica dominato dalla componente “finanziaria” e i rischi insiti nella crescita dell’interconnessione economica su scala globale. In questo quadro, la “crisi europea” ha avuto sue precipue specificità e caratteristiche? 

La crisi globale, vista dagli Stati Uniti, è stata la crisi di un keynesismo privatizzato, una configurazione caratterizzata da una politica economica molto attiva che ha reso non poco dinamico il neoliberismo. Era, è ancora per molti versi, un mondo dove la sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito, così come la centralizzazione senza concentrazione, hanno incluso in modo subordinato le famiglie e frammentato, precarizzandolo ovunque, il lavoro. La finanza perversa era inseparabile dall’industria. Ha prodotto sovraconsumo, non sottoconsumo, e recupero del plusvalore, non caduta del saggio del profitto. Ha reso più potente un capitale mobilissimo a breve termine, segmentando l’economia mondiale, ed ha trasformato l’industria istituendo le catene transnazionali della produzione. La crisi finanziaria, che è crisi della finanza transatlantica, non poteva che rivelarsi subito, nello stesso movimento, crisi reale, per gli Stati Uniti, per il capitalismo anglosassone, per i modelli economici trainati dalle bolle, modelli presenti anche nel continente europeo. L’Europa aveva goduto indirettamente del keynesismo privatizzato attraverso una catena causale Luxemburg-Kalecki, facendo profitti via esportazioni nette, evidentemente in modo diseguale al suo interno; e la finanza, dunque anche la banca, si era rapidamente integrata. La crisi europea è diventata generale, per così dire, di rimbalzo, quando la crisi USA del 2007 è diventata nel 2008 la crisi anche di esportatori manifatturieri europei come Germania e Italia, via crisi dell’economia cinese. Nell’eurozona all’inizio la risposta fu tradizionalmente keynesiana, a partire dalla Germania, e con l’eccezione dell’Italia, causa il debito pubblico reputato eccessivo. Già a metà 2009 si tirano i remi in barca. La crisi europea diviene autonoma dallo scoppio del caso Grecia, nel 2010.

Il debito rimane un problema per molti Paesi europei. Per l’Italia, un vero cappio al collo, che da anni condiziona le scelte economiche dei governi e sottrae risorse al welfare ed alle politiche per la crescita. Come potrebbe configurarsi una “soluzione europea” a questo problema?

Il problema – ammesso e non concesso che esista: ma dentro l’eurozona esiste eccome per ragioni istituzionali – è il rapporto del debito pubblico con il prodotto interno lordo. Si risolve facendo crescere il denominatore, il PIL. Ciò richiede nel breve periodo un aumento del debito, non una sua riduzione. Deve però essere costituito da spese ‘produttive’, spese che moltiplichino la domanda effettiva, spese che incrementino l’occupazione. Ciò può essere fatto tecnicamente in molti modi, da un big push di investimenti europei centralizzati, magari finanziati con eurobond, ad una spinta espansiva coordinata nei vari paesi: quello che è certo, è che si devono escludere le spese statali in conto capitale dai vincoli di Maastricht, un riferimento possibile è alla cosiddetta golden rule; mentre la sinistra deve fare una battaglia per includere gli investimenti in istruzione o salute nel conto capitale. Se però, come scriviamo nel nostro libro, la finanza e l’industria europea sono integrate transnazionalmente in modo gerarchico, occorrono politiche con un forte contenuto strutturale e di riequilibrio geografico. Una grande politica di assunzioni, una politica di aumento dei salari, a partire dal settore pubblico, una politica generale di stabilizzazione dei lavori, aumenterebbe le risorse per il welfare. E si potrebbe continuare. Dentro una espansione sicuramente è urgente un discorso di qualificazione della spesa, una autentica politica di austerità: ma soltanto nell’espansione, altrimenti ci si avvita nella recessione o stagnazione. Certo, sembra un discorso di utopia astratta. Ma la sinistra deve rendersi conto che soltanto giocando la carta di una Europa politica federale con una forte spinta dal basso, e costruendo finalmente un sindacato europeo transnazionale, le  cose possono cambiare. Ciò che appare utopico diviene necessario proprio per la spinta della crisi, economica e politico: la famosa frase di Rosa Luxemburg, socialismo o barbarie, rischia di tornare vera, alla lettera. Da sinistra, la risposta non può che essere la socializzazione: dell’investimento, del lavoro, della finanza. Altrimenti una via d’uscita che comporta più statalismo autoritario, in forme nuove, la si troverà, all’altro lato dell’arco politico.

Quando si parla di Europa, troppo spesso l’accento cade solo sulla moneta e sui vincoli di bilancio, mentre viene del tutto trascurato il dato “strutturale” delle nostre economie. Il lavoro, le nuove forme di sfruttamento, l’iniqua distribuzione della ricchezza, il conflitto tra capitale e lavoro. E’ come se, spesso, prevalesse una sorta di “monetarismo” di segno opposto a quello originario ed originale, ma comunque subalterno ad una visione enfatica del ruolo della moneta. Ma il “cambiamento” dell’Europa non dovrebbe passare anche, e soprattutto, da cambiamenti radicali nella sfera dell’economia reale e dei rapporti di produzione? 

La struttura industriale e la sua dinamica, da un lato, e la storia del conflitto tra capitale e lavoro a partire dalla fine degli anni ’60, dall’altro, sono i due elementi essenziali e interconnessi per ricostruire la genesi della crisi del 2008. Solo mettendo a fuoco l’esigenza capitalistica di ridimensionare il potere acquisito dal movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, in tutto l’Occidente nella seconda metà degli anni ’60, si comprendono le cause profonde del formarsi della triade “lavoratore traumatizzato/risparmiatore maniacale(-depressivo) / consumatore indebitato” di cui parliamo. A sua volta la crisi dei sub-prime e la crescita insostenibile dei debiti privati sono spiegabili solo a partire dalle due esigenze contradditorie di sostenere il meccanismo di accumulazione, di comprimere le condizioni di lavoro, di precarizzare il lavoro e di ridimensionare lo Stato Sociale. Né, d’altronde, si può comprendere la forza d’urto della controffensiva capitalistica in Europa senza analizzare il lungo processo di ristrutturazione delle catene del valore che strutturano il sistema industriale ed economico. Tale processo, infatti, che prima abbiamo definito di centralizzazione senza concentrazione, ha permesso la frammentazione della struttura produttiva e la sua organizzazione in reti organizzate, in sistemi di imprese ognuno dei quali è organizzato attorno a un’azienda leader che controlla la parte finale del processo produttivo, e da una catena di fornitura organizzata progressivamente su livelli a minor valore aggiunto e reti di imprese produttive e di servizi che lavorano per molte imprese leader, essendo tanto le une quanto le altre ad alta specializzazione. Il lavoro precario è parte strutturale di questa architettura sia nella forma tradizionale, descritta da Marx, di un esercito industriale di riserva, sia nelle forme specifiche di questa nuova sezione del capitale rappresentata dal capitalismo delle piattaforme e dalla nascita della cosiddetta gig economy. Questi processi di frammentazione e gerarchizzazione hanno non solo ridefinito i rapporti di potere tra le imprese ma hanno frammentato il mondo del lavoro. Il processo, a partire dagli anni Novanta, si è combinato con la libertà di movimento dei capitali dando origine a un sistema produttivo europeo integrato. Come sosteniamo nel libro, ciò si è prodotto attraverso processi di acquisizione, fusioni e investimenti diretti esteri e di outsourcing delle imprese leader su scala europea. È una delle facce della “sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito” di cui parliamo. La strategia oligopolistica soggiacente a questi processi, tesa a controllare maggiori quote di mercato, è stata un fattore centrale nell’indurre la maggiore ‘centralizzazione’. I processi di fusione e acquisizione hanno al tempo stesso destabilizzato la struttura oligopolistica ereditata in molti settori industriali, mettendo in difficoltà alcuni dei grandi gruppi industriali. La possibilità per i capitali dell’Europa occidentale, dopo la caduta del muro di Berlino, di poter investire in Europa orientale, ha accelerato la ristrutturazione industriale che era cominciata alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Un altro potente stimolo è venuto dall’ingresso della Cina nel mercato mondiale manifatturiero. Il ricostituito potere capitalistico in Europa ha piegato tale processo in una direzione, dominata dalla Germania, che è una variante della politica neoliberista all’interno dell’economia mondiale come ‘terreno contestato’. 

Rimanendo in tema. Nel libro si affronta specificamente il tema delle trasformazioni industriali in Europa e in Germania, quello della “capacità produttiva” dello spazio economico comune e quello della dimensione del capitale industriale. Vogliamo parlarne? 

Questi sistemi di impresa sono distribuiti in molti paesi europei, in modo però non omogeneo. Il nucleo centrale è prevalentemente localizzato in Germania ed Austria, paesi che costituiscono assieme alla Romania, alla Repubblica Ceca, all’Ungheria, alla Slovacchia, alla Lituania, alla Slovenia, alla Polonia e alla Bulgaria l’area manifatturiera tedesca allargata. Si è di conseguenza prodotto uno spostamento del baricentro industriale a est. Questo sistema, tra gli anni Novanta e il 2008, è stato costruito attorno al modello di forzatura delle esportazioni i cui campioni eponimi sono la Germania e l’Italia. Come sosteniamo la dominanza tedesca nel controllo di queste reti ha prodotto una funzionalizzazione di molta parte dei sistemi nazionali alle esigenze tedesche e, fondandoci anche sui lavori di Simonazzi, Ginzburg ed altri ricercatori che hanno documentato, in lavori del 2013 e del 2018, la concreta architettura di questo nuovo sistema produttivo, i meccanismi di integrazione industriale sono asimmetrici tra la direzione Est Europa e quella Sud Europa. L’Europa pre-crisi era qui caratterizzata da due reti produttive e commerciali una Centro -Sud, una Centro -Est. Tutto ciò ha prodotto, fino alla crisi del 2008, effetti divergenti tra l’Est e il Sud Europa. A Est un processo di diversificazione produttiva combinata con uno di specializzazione, nel Sud un impoverimento della matrice produttiva. La crisi del 2008 ha visto calare l’importanza di quella Centro Sud e ha indotto il sistema manifatturiero tedesco allargato a privilegiare l’asse Centro Est allargandolo alla Cina. Se si articola l’unità di analisi si può vedere con chiarezza che le asimmetrie indicate non sono di natura nazionale ma regionale cioè sia transnazionali che subnazionali. Solo cambiando l’unità di analisi dal livello nazionale a quello del sistema transnazionale europeo e introducendo l’analisi del sistema industriale si comprendono quindi i processi degli ultimi decenni anche nelle loro dimensioni politiche e geo-politiche.

Come può chiudersi la “partita” europea?

Ogni modificazione, quindi, della situazione europea e della instabilità, principalmente politica, della sua architettura istituzionale e monetaria deve necessariamente fare i conti con questa realtà transnazionale. Di qui i limiti intrinseci in tutte le strategie, anche a sinistra, che rivendicano solo nuove politiche finanziarie e monetarie. Politiche espansive, ad esempio, pur necessarie, se non sono accompagnate da una modifica di quella struttura materiale, che abbiamo descritto, si traducono in un rafforzamento delle relazioni asimmetriche e gerarchiche esistenti, con effetti paradossali come ben evidenziato dalle proposte del governo italiano di accompagnare con misure fiscali uno spostamento della mobilità verso l’elettrico. Tali proposte, infatti, per quanto benintenzionate, non affrontano il problema fondamentale dell’industria automobilistica europea; il problema che precede la pur necessaria opera di disinquinamento. Quando parliamo di socializzazione dell’investimento e dell’occupazione la sua concreta applicazione nel caso dell’industria automobilistica vuol dire uscire da un meccanismo i cui due unici obiettivi sono la conquista di fette sempre più ampie dei mercati extra-europei alzando il livello di ritorno sugli investimenti e di profitto in una gara distruttiva che incomincia a ritorcersi sull’Europa. Il vero obiettivo industriale dovrebbe essere la costruzione di un modello di mobilità per l’Europa che sia sostenibile ecologicamente, basato sulle necessità reali dei cittadini europei e in grado di garantire “buoni lavori”. Uno spostamento di questa portata è al di fuori dei programmi di tutte le forze politiche europee e non può divenire concreto grazie alla comparsa di un principe illuminato e dei suoi consiglieri. Può essere solo l’obiettivo dichiarato di un forte movimento dal basso. Tale possibilità richiede un rinnovamento profondo del movimento sindacale europeo che, come abbiamo detto, dovrebbe strutturarsi come un movimento transnazionale e superare i crescenti limiti aziendalistici e corporativi. Un sindacato siffatto potrebbe trovare alleanze in ampi strati della popolazione. Da questo punto di vista un progetto “ingenuo” come il grande new deal verde di Alexandra Ocasio–Cortez, la deputata americana democratico-socialista, indica una strada. La stessa strategia di digitalizzazione delle imprese industriali, nota come Industria 4.0, si tradurrebbe inevitabilmente, nelle attuali configurazioni di potere, nel rafforzamento e nel peggioramento delle asimmetrie descritte. Un’asimmetria sia su scala europea, a vantaggio della Germania e del suo sistema industriale allargato, sia all’interno dei singoli paesi come dimostra l’applicazione del piano Calenda in  Italia.


*Riccardo Bellofiore è professore di Economia Politica al Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bergamo, dove insegna Economia Monetaria, Storia dell’Economia Politica e International Monetary Economics. Gli interessi di ricerca includono la teoria marxiana del valore e della crisi, le tendenze del capitalismo contemporaneo, gli approcci endogeni alla moneta, la filosofia dell’economia. Fa parte del Comitato Scientifico dell’edizione italiana delle Opere Complete di Marx ed Engels e dell’International Symposium on Marxian Economic Theory. Ha all’attivo molte pubblicazioni, ha collaborato e collabora con varie riviste e giornali.

**Francesco Garibaldo è un sociologo industriale che si occupa da decenni dei processi di ristrutturazione industriale e di trasformazione del lavoro. Ha diretto L’istituto nazionale di ricerca della CGIL (IRES) e in seguito, fino al 2008, l’istituto per il lavoro (IPL) industriale e innovazione organizzativa. Autore di oltre cento pubblicazioni, molte delle quali in collaborazione, tra le quali, due capitoli sui metodi interattivi nella ricerca sociale per il manuale collettaneo per gli studenti “Application of interactive methods” per Polyteknisk Forlag, Danimarca. È inoltre uno dei quattro curatori della collana Labour, Education & Society per la casa editrice Peter Lang.

***Mariana Mortágua è un’economista e deputata al parlamento portoghese per il partito Bloco de Esquerda.

Luigi Pandolfi è giornalista pubblicista e divulgatore scientifico. Scrive di politica ed economia, con particolare attenzione ai temi concernenti la finanza pubblica e la transizione europea, su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui Il Manifesto, Micromega, Linkiesta, Economia e Politica, Huffington Post, Ytali. E’ fondatore ed animatore della testata di approfondimento online Scenari Globali.

Scritto da Redazione

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