di Luigi Pandolfi
Alcuni anni fa sarebbe stato inimmaginabile che la Lega diventasse il primo partito italiano, che si camuffasse da partito “nazionale” e raggiungesse il suo obiettivo storico, la sostanziale “indipendenza” del nord, con i voti della gente del Sud, direttamente e per il tramite dei suoi attuali alleati di governo.
Sul tavolo dell’esecutivo, infatti, ci sono tre “bozze d’intesa” relative alla cosiddetta “autonomia rafforzata”, che vedono protagoniste altrettante regioni del nord: la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna.
Entro il 15 febbraio, l’esecutivo dovrà definire la proposta da sottoporre ai presidenti delle regioni interessate, poi la stessa passerà al vaglio del parlamento (è richiesta una legge rafforzata che la recepisca). Salvini vuole chiudere in fretta la partita, perché su questo terreno si gioca la credibilità con il “suo” nord. I pentastellati, almeno finora, sembrano seguirlo.
Apparentemente, una partita come tante, visto che il riconoscimento di “maggiori forme di autonomia alle Regioni a statuto ordinario” è previsto dalla Costituzione, all’art.116, terzo comma. Invero, la questione è molto più complessa, più delicata e più insidiosa. Perché una cosa è richiedere più autonomia su “qualche” materia (ci sono state richieste in tal senso in passato, ma non sono andate a buon fine), altra cosa è chiederla su 23 materie (in pratica quasi su tutto), compresi i “rapporti internazionali”, ed esautorare il parlamento nella definizione delle questioni più “spinose”, come quella relativa alle attribuzioni finanziarie delle regioni coinvolte. In sostanza, il parlamento sarebbe chiamato a ratificare il disegno di legge del governo senza possibilità di emendare il testo.
Poi c’è il “merito”, la sostanza dell’accordo, che, a maggior ragione per quanto riguarda il Veneto e la Lombardia, non può non risentire della congiuntura politica e della “cultura politica” delle forze che ne sono promotrici. La Costituzione parla di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, ma, fatto salvo il rispetto dei principi generali dell’ordinamento, non delimita il perimetro della stessa. E per questo è prevista un’intesa tra le parti, che, in teoria, potrebbe anche non realizzarsi. Nel caso della Lombardia e del Veneto, non bisogna dimenticare nemmeno che tale richiesta è stata fatta precedere da due referendum consultivi. Inutili sul piano formale, ma con una precisa valenza politica, in linea con le battaglie storiche della Lega, riassumibili nello slogan “prima il nord”.
Il nocciolo della questione, infatti, rimane sempre lo stesso: il gettito fiscale e la sua appropriazione. Facendo finta di ignorare che l’Italia è uno Stato unitario e che il “rapporto fiscale” è tra il cittadino e lo Stato (non tra il cittadino e la propria regione), si vuole far passare il principio che le tasse dei veneti sono del Veneto, quelle dei lombardi della Lombardia, quelle dei calabresi della Calabria e via continuando.
Il ragionamento è questo: le regioni del nord versano allo Stato sotto forma di imposte più di quanto ricevono sotto forma di spesa pubblica (il cosiddetto “residuo fiscale”). A parte i lati scoperti di questa storiella (non tiene conto, ad esempio, della disparità di reddito tra cittadini che vivono al nord e cittadini che vivono al sud, ma anche del saldo migratorio negativo per i meridionali), in uno Stato unitario il concetto di “residuo fiscale” non ha senso, in linea di principio. Possono essere stabilite, come la stessa Costituzione e leggi già prevedono, forme di “compartecipazione al gettito dei tributi erariali” (la compartecipazione al gettito dell’Irpef è già prevista nell’ordinamento, sotto forma di addizionale), ma senza mettere in discussione il carattere “generale” ed “unitario” della fiscalità nazionale.
Non ha senso, ma è intorno ad esso che ruota l’intesa tra governo e regioni che hanno chiesto più autonomia. E’ scritto nero su bianco nelle bozze in circolazione: l’attribuzione delle risorse finanziarie per l’esercizio della maggiore autonomia, avverrà, dopo una fase transitoria, sulla base dei “fabbisogni standard”, a loro volta parametrati “in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati sul territorio”. Il quantum lo stabilirà una Commissione paritetica Stato-Regione e così sarà per i prossimi 10 anni, salvo variazioni in aumento (“l’eventuale variazione di gettito maturato nel territorio è di competenza della Regione”, si legge nelle bozze di intesa di Lombardia e Veneto).
Chiarissimo. Se una regione è più ricca ha diritto a servizi migliori e a migliori condizioni di vita dei cittadini che vi risiedono. E a farsi fottere l’Italia “una e indivisibile” e l’”uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge”. Si configurerebbe quella che Gianfranco Viesti ha efficacemente chiamato la “secessione dei ricchi”: le regioni a più alto reddito, trattenendo una parte maggiore delle tasse raccolte nel proprio territorio, quindi sottraendola alla fiscalità nazionale, lascerebbero alla deriva, al loro destrino, le regioni più povere. Emblematiche le parole del governatore Zaia: “Penalizzare chi produce perché qualcun altro non ce la fa direi proprio di no”.
Purtroppo, come già è accaduto con la riforma del Titolo V della Costituzione e successivamente con i decreti sul federalismo fiscale, anche di fronte a questo nuovo assalto alla diligenza, nel resto del mondo politico, salvo poche eccezioni, stanno prevalendo tatticismi, calcoli di bottega, indolenza, complicità. C’è un partito traversale che sostiene questo progetto di disarticolazione del Paese, come gli stessi referendum in Lombardia e Veneto hanno dimostrato.
Paradossalmente, l’unica forza che potrebbe far saltare questo infausto disegno è il Movimento Cinque Stelle, perché è fuori dal governo delle regioni interessate e perché ha, più di altri in questo momento, un debito di riconoscenza verso il sud e i suoi elettori. Ma anche su questo capitolo, potrebbe prevalere la “ragion di governo”.