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“Nuit Debout”, a Parigi torna la Comune

 

di Luigi Pandolfi

Le crisi hanno sempre un valore costituente. Krisis (κρίσις) è scelta, decisione. Krino(κρίνω), il verbo da cui deriva il sostantivo krisis, è separare, distinguere, ordinare. Rottura, scelta, nuovo ordine. Mai le crisi hanno avuto un esito scontato, univoco. Nelle crisi giocano fattori dialettici, che, per definizione, implicano una possibilità, o un’altra, o un’altra ancora. “Contraddizioni reali” che muovono la storia, potremmo dire. 

La Grande Recessione in Europa ha provocato un vistoso impoverimento delle popolazioni, una caduta dei redditi da lavoro paragonabile soltanto con quella registratasi nell’immediato Dopoguerra. Sono cresciute enormemente le disuguaglianze, per effetto di una gigantesca redistribuzione verso l’alto della ricchezza, e oltre 25 milioni di persone (19 nella sola zona euro) sono escluse dal mondo del lavoro. Le élites economiche ed istituzionali hanno scaricato sui cittadini il costo del risanamento finanziario, prendendo, parimenti, la crisi a pretesto per infliggere il colpo finale al modello sociale europeo ed alla sua civiltà del lavoro. Austerità coniugata con controriforme del mercato del lavoro per riorganizzare la società europea in funzione degli interessi del capitale, surrogazione della democrazia con una governamentalità di tipo funzionalista. Un assetto postmoderno del potere, in cui la sovranità cede il passo alla regola, alla sua “razionalità matematica”, al primato della procedura sulla decisione democratica, sul consenso. 

La crisi delle grandi organizzazioni politiche di massa, dei corpi intermedi, ha senz’altro favorito questa deriva, insieme all’intrinseca debolezza del pensiero critico, ovvero alla subalternità intrinseca di una parte di esso all’ideologia dominante, come conseguenza della sconfitta del movimento operaio novecentesco e delle trasformazioni che hanno investito la sfera produttiva, i rapporti tra capitale e lavoro. Una subalternità che spesso si è tradotta nella confusione tra l’ideale dell’Europa unita e la costruzione materiale della stessa secondo canoni mercatisti e governamentali. La sinistra tradizionale, o quel che ne rimane, ancora oggi fa fatica a districarsi in questo mutato scenario politico ed economico, dove i concetti di soggettività del lavoro salariato e di sviluppo della democrazia entro la cornice costituzionale-nazionale costituiscono niente più che termini di paragone, ciò che è stato superato dall’attuale condizione precaria, frammentata, del lavoro e dalla riorganizzazione oligarchica e tecnocratica del potere su scala europea. 

Partita chiusa, dunque? Nient’affatto. Restando all’ambito europeo, proprio la crisi economica e la sua gestione hanno prodotto e continuano a produrre resistenza e conflitto, sebbene con differenze sostanziali da paese a paese, tra grandi fiammate e bruschi ripiegamenti. Da piazza Syntagma a Puerta del Sol, passando per le grandi mobilitazioni in Portogallo del biennio 2012-2013, fino alle lotte per la casa, il reddito e la democrazia in Croazia, Slovenia e Bulgaria, negli ultimi anni si è fatta strada in Europa una nuova soggettività antagonistica, per quanto provvisoria, che, in alcuni casi, è riuscita a tradursi anche in convincenti proposte politico-elettorali. Dopo la vittoria di Syriza in Grecia, si era creduto addirittura che il castello austeritario europeo avesse le ore contate e che attraverso le elezioni, peraltro in un paese periferico, si potesse ottenere un cambiamento di paradigma delle politiche economiche comunitarie. Sappiamo com’è andata a finire, ma questo non ha impedito che si accendessero, altrove, nuovi focolai di lotta. In Francia, per esempio. 

Dal 31 marzo, giorno della grande mobilitazione contro la riforma del mercato del lavoro varata dal governo socialista, un “Jobs act alla francese” che prevede, tra l’altro, un alleggerimento dei vincoli per i licenziamenti economici e la possibilità di derogare alle 35 ore settimanali, la Francia sta familiarizzando con l’ascesa di un movimento che promette di non essere un fenomeno estemporaneo, sebbene l’idea di un’occupazione permanente di uno dei principali luoghi di ritrovo parigini sia nata quasi per caso, dopo la visione da parte di alcuni dei suoi protagonisti del film-documentario di François Ruffin Merci patron!, che racconta la storia di un lavoratore licenziato, poi risarcito e reintegrato nel posto di lavoro. 

Place de la République a Parigi, e poi decine di altre piazze in tutto il paese, con una rapidità sorprendente, sono diventate nelle ultime settimane il teatro di una nuova “socialità resistente”, luoghi di incontro e di dibattito, spazi di democrazia diretta, sedi di una inedita soggettività politica, a dispetto della tesi secondo cui la condizione precaria del lavoro (e delle esistenze) renderebbe impossibile qualsiasi forma di solidarietà tra i lavoratori, tra questi e i disoccupati. Studenti, precari, disoccupati, soprattutto, ma anche pezzi di ceto medio, determinati a non tornare più a casa, a rinchiudersi nel proprio individualismo: «Nous ne rentrerons pas chez nous», giurano, sottolineano, avvertono. In fondo, il più grande risultato che il movimento ha conseguito finora è stato proprio quello di trasformare drammi personali in esperienze collettive. 

Certamente, Nuit Debout ha molte cose in comune con Occupy Wall Street, Gezi park, il movimento spagnolo degli indignados, perfino con alcune espressioni delle Primavere arabe. Al tempo stesso, però, sembra che i suoi protagonisti vogliano far tesoro degli errori e dei limiti di queste esperienze, riflettendo da un lato sul rischio di un’involuzione politicista della protesta, dall’altro su quello di un’accidentalità temporanea della stessa. Molto chiaro, a tal proposito, Frédéric Lordon, filosofo ed economista, tra i protagonisti del movimento, in un’intervista concessa a Marta Fana per il Manifesto: «OWS (Occupy Wall Street) è stato un gran bel movimento, ma completamente improduttivo. (…) All’esatto opposto, Podemos rappresenta lo sbocco politico del 15M, ma in una forma ultra classica, al prezzo di tradire le sue origini: un partito classico, con un leader classico che fa il gioco classico delle istituzioni elettorali». Ecco perché Nuit Debout dovrà avere uno «sbocco costituente», nel senso che il suo obiettivo non dovrà essere quello di entrare nelle istituzioni, in parlamento, ma quello di «rifare le istituzioni», riscrivere la costituzione del paese, «abolendo il lavoro salariato e la proprietà privata dei mezzi di produzione». 

Affiora nei contenuti e nel linguaggio di questo movimento una sorta di “spirito comunardo” («La politique n’est pas une affaire de professionnels, c’est l’affaire de tous»), una radicalità anticapitalistica sconosciuta agli altri movimenti che l’hanno preceduto, che fa leva sui concetti di «convergenza delle lotte», di tutte le lotte, da quella dei precari a quella dei migranti, e di trans-nazionalità delle stesse. Come tutti i movimenti nati in questi anni, nondimeno, anche Nuit Debout ha molto da lavorare, da discutere, per affinare il suo profilo, dal punto di vista programmatico ed organizzativo. D’altronde non è detto che il pensiero di alcuni intellettuali, che dal principio hanno simpatizzato con il movimento, a cominciare dallo stesso Frédéric Lordon, coincida perfettamente con quello della generalità dei suoi attivisti. Su un punto non hanno dubbi, però: «I nostri sogni non rientreranno più nelle loro urne», con chiaro messaggio alla politica tradizionale, anche di sinistra. Intanto, il calendario si infittisce di appuntamenti, nasce un sito web dedicato, cresce la presenza del movimento sui social network e tutte le discussioni che si svolgono in piazza possono essere seguite in streaming, sul canale Youtube Tv Debout o sulla web radio Radio Debout. Prossimo appuntamento di rilievo il 28 aprile, per un’altra manifestazione contro la riforma del mercato del lavoro, poi il 7 e l’8 maggio prossimi a Parigi, ancora in Place de la République, di giorno e di notte, infine una giornata di mobilitazione internazionale, il 15 maggio, che dovrebbe coinvolgere tante piazze contemporaneamente, non solo in Francia, ma anche nel resto d’Europa ed oltre. 

Non sfuggirà a nessuno che la nascita ed il consolidarsi di questo movimento, che dalla Francia sta contagiando altri paesi europei (si contano già molte città in Belgio, Olanda, Grecia, Germania, in cui si sperimentano le “notti in piedi”), stia smentendo la previsione secondo cui nei prossimi anni, in Europa, la partita sarebbe stata soltanto tra oligarchie tecno-finanziarie e destre populiste, nazionaliste, identitarie, pronte a raccogliere il risentimento delle popolazioni contro la gestione austeritaria della crisi e i frutti delle loro campagne xenofobe contro i migranti, a fronte di un’endemica inadeguatezza della sinistra e delle sue chiavi di lettura della crisi. Il rischio che le «crisi organiche» sfocino in qualche forma di «sovversivismo reazionario», come ammoniva Gramsci, è sempre incombente. Ma, per l’appunto, si tratta di un rischio, di una possibilità, tra altre possibilità. 

L’Europa sta vivendo una transizione difficile, il cui esito dipenderà da molti fattori. Tra questi, il successo (o l’insuccesso) di un movimento europeo che rilanci, su basi concrete, il tema del superamento dell’attuale governance euro-monetaria. Che la lotta riprenda da Parigi, poi, non è affatto secondario. La Francia, oltre a collocarsi sul crinale tra centro e periferia, costituisce una piazza altamente simbolica. Ce n’est qu’un début?

Scritto da Redazione

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