«Una vera rivelazione, in dialogo con il grande spagnolo Dino Valls, è Federico Giampaolo»: con queste parole, Vittorio Sgarbi, curatore dell’esposizione L’Acqua la Luce la Pietra (Fiuggi, Officina della Memoria e dell’Immagine fino al 30 agosto) chiude il suo intervento, tributando un appassionato riconoscimento al giovane artista laziale, presente in mostra con i grandi dipinti Vanitas e il Libro della Genesi.
Nato nel 1978 a Colleferro e attivo a Carpineto Romano, dove ha il suo studio, Federico Giampaolo affascina e conquista con la suggestione eloquente e insieme mistica delle sue opere: allegorie ed evocazioni della grande Arte italiana si sposano sapientemente a simboli e immagini mutuate dalla contemporaneità, in una resa figurativa di impeccabile perfezione. Il tocco preciso e la resa altissima degli incarnati dimostrano come essere artista oggi è anche essere in possesso di raffinate tecniche pittoriche che diano forma a quel bagaglio di contenuti che, come ci illustra Federico Giampaolo, si esplicita nella sua arte attraverso diversi livelli di lettura, in un ammaliante viaggio tra metafore in figura e intense personificazioni.
Nelle sue opere il simbolismo e l’allegoria hanno un valore molto significativo. Come nasce questa vocazione e come l’ha sviluppata?
«Mi hanno sempre affascinato i simbolismi: mi piace l’idea di poter parlare di qualcosa in modo indiretto, attraverso analogie formali tra un oggetto e l’altro. Apprezzo le allusioni che suggeriscono un’idea senza definirla troppo, così da trasmettere all’interlocutore la possibilità di trovare in modo autonomo e personale un proprio significato».
Vittorio Sgarbi l’ha equiparato all’artista spagnolo Dino Valls. Come si riconosce in questo paragone?
«Amo molto Dino Valls ed è motivo di grande orgoglio per me essere stato paragonato a lui. Anche se quello che mi distingue da questo artista è uno sguardo forse meno drammatico e più disincantato.
Vidi per la prima volta le sue opere in una galleria a Roma e ne rimasi folgorato. Possiede una tecnica impareggiabile, è un perfezionista al limite del patologico, un artista completo anche dal punto di vista dei contenuti, perché ha saputo dare nuovo respiro all’arte sacra. Ho sempre dipinto soggetti religiosi ma, conoscendolo, ho ricevuto come la conferma – che da sempre cercavo – del fatto che partendo da un’iconografia religiosa (quindi poco attuale e settaria) si possa parlare di sentimenti umani in modo universale. E che forse, anche attraverso la pittura, si possa ritrovare quel sentimento “del sacro” che l’uomo contemporaneo sta perdendo di vista».
Qual è la sua formazione e quali artisti del passato rappresentano per lei una fonte di ispirazione?
«Ho frequentato il liceo classico e poi l’Accademia di Belle Arti dove, comunque, ho sempre e solo disegnato, mentre con la pittura ho cominciato da autodidatta qualche anno dopo.
Sono moltissimi gli artisti del passato che più mi hanno influenzato: tutti quelli della grande tradizione, da Cimabue a Masaccio e Piero della Francesca; da Antonello da Messina a Giovanni Bellini e Michelangelo, Caravaggio, Velasquez, El Greco…».
La Vanitas, un tema del repertorio medievale e umanistico. Cosa rappresenta per lei, specialmente in relazione alla contemporaneità, e quali elementi sceglie per rappresentarla?
«La Vanitas è oggi più che mai un tema attualissimo: Vanitas è la precarietà, è tutto ciò che non è essenziale, e credo che mai come adesso l’uomo sia completamente assoggettato a tutti i feticci che si è creato per fuggire l’essenziale. Nel caso della Croce, il tema della Vanitas mi è stato suggerito dalla lettura di un libro, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche, in cui vengono narrate le vicende di ragazze dalla straordinaria magrezza che in molti casi diventavano “fenomeni da baraccone” perché ritenute capaci di privarsi del cibo grazie a poteri trasmessi da dio (secondo il popolo) o da satana (secondo le autorità ecclesiastiche). In questo saggio, infatti, viene spiegato come l’attuale modello estetico di magrezza abbia origini antiche e come il fenomeno dell’anoressia, oggi tanto diffuso, sia paragonabile, per certi versi, a quello dell’ascetismo religioso di certe sante del medioevo».
A proposito di Medioevo: la croce a portelle rivive con la sua arte in forme nuove.
«Esattamente: la forma, infatti, è del tutto nuova. Volevo creare una sorta di sintesi tra la staticità della croce e il gioco costruttivo dei polittici. Al momento, sto proseguendo l’approfondimento proprio del tema della croce, che mi dà ancora tanti spunti. Un simbolo così carico di significati non può essere esaurito in poco tempo».
In mostra a Fiuggi è esposta anche il suo Libro dellaGenesi. Qual è il contenuto di questa tela?
«La composizione è giocata sulla ripetizione della mandorla: nel cappuccio, nel disegno del libro e nella melagrana spaccata. Il titolo richiama l’idea del parto, ma non solo in senso materno, bensì anche con riferimento al momento della creazione artistica».
Insomma, le sue opere, come le allegorie medievali e rinascimentali, hanno diversi livelli di lettura. Ma il pubblico contemporaneo è in grado di coglierli?
«L’uomo contemporaneo è visivamente sovrastimolato. Le immagini a cui è sottoposto ammiccano, seducono, a volte urlano, e vanno capite in pochi secondi perché il messaggio commerciale implicito deve arrivare forte e chiaro. Vorrei, invece, che i miei dipinti dilatassero questi tempi così stretti, soffocanti. Vorrei che raccontassero storie infinitamente lunghe, se necessario, fatte di silenzi… E perché no, anche di messaggi ambigui, irrisolti».
Quali artisti contemporanei apprezza e la ispirano?
«Mi piace molto la fotografia contemporanea e mi ispirano artisti come Jan Saudek, Peter Joel Witkin, David Lachapelle: lavorano sull’immagine come fossero pittori e impiegando molti riferimenti alla tradizione italiana».
Quanto è importante la tecnica pura nella sua arte e quanto sono importanti la capacità tecnica e ‘artigianale’ nel lavoro dell’artista contemporaneo?
«La tecnica è fondamentale nel mio lavoro. Mi piacciono le persone che lavorano con le mani e mi piace tutto ciò che è artigianato. Credo che l’artista contemporaneo debba riappropriarsi di questa capacità. Un artista deve sporcarsi le mani, deve plasmare la propria creatura: non riesco a pensare a un pittore o scultore che si limiti a progettare la propria creazione, delegando ad altri il compito della messa in opera».
Arte contemporanea non figurativa e figurativa: possono convivere? E cosa pensa della diatriba intorno alla sopravvivenza dell’arte figurativa?
«Credo possano convivere benissimo, anzi devono convivere: l’arte ha l’obbligo di diversificarsi perché, per definizione, le possibilità espressive sono infinite.
Credo anche che l’arte figurativa esisterà sempre; in un modo o nell’altro l’uomo sarà sempre “tentato” di imitare la natura. È impossibile non fare i conti con essa fin quando i sensi ci permetteranno di percepirla come gli occhi ce la faranno cogliere. Sul piano culturale, poi, credo che gli artisti italiani, in particolare, avvertiranno sempre il peso della storia che ci portiamo addosso: tutto quel nostro glorioso passato, dall’arte classica greco-romana, al Rinascimento, alla rivoluzione di Caravaggio. Fare i conti con tutto questo mondo è quasi d’obbligo, qualsiasi forma d’arte si voglia sperimentare».
di Isabella Pascucci