Sono lontani, lontanissimi, i tempi in cui la letteratura verista meridionale narrava di borghi e periferie urbane in cui l’elemento della povertà – spesso estrema – camminava gomito a gomito con la prolificità delle famiglie. Nondimeno fino all’alba di questo secolo, al netto di tutte le modificazioni registratesi nella struttura produttiva e nella realtà sociale del Paese, il sud “vantava” ancora un tasso di fecondità congiunturale (il numero medio di figli per donna) nettamente superiore a quello delle regioni centro-settentrionali. Poi il “sorpasso”, in verità del tutto inatteso, stando alle previsioni dei principali istituti di statistica e dei più accreditati osservatori demografici.
Oggi l’elemento della denatalità occupa un posto di rilievo nella ricerca sociologica e nelle analisi economiche sulla condizione del Mezzogiorno, come dimostra, tra gli altri, l’ultimo Rapporto della Svimez. Proprio quest’ultimo, ha sottolineato come il sud rischi nei prossimi anni un vero e proprio “processo di desertificazione umana”, a causa del saldo negativo tra decessi e nascite. Si è chiusa definitivamente un’epoca: prolificità e sottosviluppo non vanno più a braccetto. Di mezzo, poi, ci si mette la crisi, la nuova emigrazione giovanile, e la frittata è fatta.
A risentirne di più sono ovviamente le aree interne, i “paesi” che hanno costituito per secoli l’ossatura, anche morale, del Mezzogiorno. Scrigni di cultura, arte, memoria, di resistenza comunitaria alle avversità della vita, che vanno incontro, di giorno in giorno, ad un declino inesorabile, cupo come le rughe degli anziani che ormai prevalentemente vi risiedono.
per le strade di Riace
In Calabria, periferia estrema di questo sud in sofferenza, la piaga dello spopolamento incomincia a far paura, se ne avverte ormai pienamente la portata funesta. D’altronde quale può essere il sentimento dominante in una comunità quando un giorno il problema si chiama mancanza di bambini per formare una classe alle elementari e l’altro rischio chiusura dell’ufficio postale? Senza poste e scuole non c’è “paese”, c’è poco da fare.
A guardare i numeri sulla disoccupazione, sui consumi, sulla produzione e sul credito non c’è nemmeno da sperare per i prossimi anni, a meno che un massiccio intervento dello Stato (e dell’Unione europea) non faccia irruzione nello scenario attuale, col deliberato obiettivo di fermare la deriva in atto. Ma questa, direbbe qualcuno, è un’altra storia.
Nel frattempo qualche laboratorio di resistenza al declino si è pure aperto. Beninteso, essi non possono risolvere i problemi legati alla crisi ed al crollo del quadro macroeconomico complessivo del Mezzogiorno, ma possono contribuire, in qualche modo, a mettere in sicurezza gli scrigni di civiltà di cui parlavamo più indietro. Stiamo parlando dei comuni che hanno deciso di aderire al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) che fa capo al Ministero dell’Interno, una rete degli enti locali che, attraverso il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo ed altre risorse straordinarie (Protezione Civile, 8 per mille), realizza interventi di “accoglienza integrata” a favore di migranti che giungono nel nostro Paese da teatri di guerra o fuggono da regimi dittatoriali.
Vasai curdi a Riace
I progetti territoriali dello Sprar, come spiega lo stesso Ministero, sono caratterizzati da un “protagonismo attivo, condiviso da grandi città e da piccoli centri, da aree metropolitane e da cittadine di provincia”. Andando però a vedere da vicino quali sono i comuni, regione per regione, che li gestiscono, balza subito agli occhi un dato: si tratta nella maggior parte dei casi di comuni capoluogo, in generale grossi centri. Tranne in Calabria, dove i comuni interessati, e soprattutto quelli “storici”, sono generalmente centri piccoli e piccolissimi. La ragione, evidentemente, sta nella diversa interpretazione che si dà del progetto e nelle diverse finalità che gli si attribuiscono a livello locale.
Non c’è dubbio che in Calabria accanto all’idea dell’accoglienza, figlia della specifica sensibilità di chi ne è protagonista, abbia giocato a favore di un’apertura verso questi progetti l’esigenza di rivitalizzare borghi in declino, abbandonati, soggetti a rapido spopolamento. Casi come quelli di Riace, Badolato, Acquaformosa, Caulonia ne sono la testimonianza più lampante. Ma il discorso vale anche per tutti gli altri. Stiamo parlando di comuni di poche migliaia di abitanti, con centri storici pressoché disabitati, lasciati per anni all’incuria ed anche al degrado, che, grazie ai nuovi “cittadini”, hanno conosciuto una nuova fase di vita, dimostrando al contempo che può esserci un’alternativa alla gestione “segregante”, disumana, dei migranti attraverso i centri d’accoglienza.
Un paio d’anni fa il sindaco di Riace Mimmo Lucano, intervistato da un noto quotidiano nazionale, ebbe a dire: «Cerchiamo di offrire ai profughi un’altra casa qui, e in cambio essi ci aiutano a tenere in vita questa casa». Esperimento riuscito, che ha attratto la curiosità di giornali e televisioni, intellettuali e scrittori, di ogni angolo del pianeta. Il suo paese, che fino a qualche decennio fa contava più di tremila abitanti, alla fine degli anni novanta era sceso a poco più di ottocento. Con l’arrivo dei rifugiati (iracheni, siriani, curdi, afghani, eritrei, somali, serbi rom, ecc.) è iniziata una nuova storia: il vecchio borgo è tornato a vivere, sono state aperte botteghe artigiane, si sono riaperte le scuole, sono state ristrutturate le case abbandonate. Oggi, con la competizione che si è aperta tra comuni a fronte di risorse sempre più scarse, Riace paga un prezzo molto alto per il trasferimento di una parte dei “propri” rifugiati verso altre località, ma gli effetti della politica fin qui seguita sono ancora ben tangibili.
asilo ad acquaformosa
Asilo ad Acquaformosa
Sarà per questo che le candidature crescono, soprattutto tra i piccoli borghi. D’altronde i vantaggi non sono solo quelli legati al ripopolamento dei centri storici. Questi progetti creano anche una piccola economia locale – a Riace e ad Acquaformosa accompagnata anche da monete locali complementari –, perché le risorse non vanno in tasca al singolo migrante (è previsto solo un “pocket money” per le piccole spese giornaliere), come la vulgata e certa propaganda xenofoba sostiene, ma servono per sostenere spese di vitto, alloggio, formazione, gestione amministrativa e logistica dei progetti. Ne consegue che parte di esse finiscono ad alimentare il commercio locale al dettaglio e un’altra parte consente di creare posti di lavoro tra italiani che, attraverso associazioni non profit, gestiscono materialmente le attività. Per dirla con Keynes, in breve, hanno un effetto “moltiplicatore” sull’economia del territorio.
Ai tempi dell’austerity e dei tagli sistematici alla finanza locale questo non è poco.
di Luigi Pandolfi
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