I dati riportati sul Sole 24 ore (il 3 novembre) relativi agli effetti della manovra del governo sulla finanza locale, ci mostrano un quadro estremamente preoccupante: tra i dieci Capoluoghi di Provincia più penalizzati sette sono meridionali , tra i primi tre più penalizzati due sono calabresi (Reggio Calabria e Cosenza). In breve è come se i tagli del governo fossero quelli di un sadico killer che infierisce sul corpo delle vittime più deboli ed indifese.
Dopo sette anni di recessione il Mezzogiorno, in tutte le sue articolazioni territoriali, è un’area socialmente ed economicamente caduta nella disperazione. Basti ricordare qualche dato scaturito dal recente Rapporto Svimez :
il 2014 è il settimo anno di recessione al Sud (nel 2013 il Pil del Mezzogiorno è crollato del 3,5% peggiorando la flessione dell’anno precedente del 3,2%), le famiglie assolutamente povere dal 2007 sono più che raddoppiate, su un milione di posti di lavoro persi in Italia dal 2008 più del cinquanta percento è residente nel Mezzogiorno, nonostante vi insista soltanto il 26% degli occupati totali del paese.
Quest’anno la Svimez denuncia anche il fatto che nel Mezzogiorno si fanno meno figli che nel resto del paese a causa della crisi. Paradossale: una volta, fino agli anni ’70 del secolo scorso, si denunciava il fatto che i meridionali facevano troppi figli e per quello erano poveri! Ma tant’è. Tutti si strappano le vesti, si indignano per la tremenda condizione giovanile, per la scandalosa assenza di occasioni di lavoro degno di questo nome, per il «rischio di desertificazione» che i territori meridionali concretamente rischierebbero da qui a qualche anno, ma alla fine niente cambia. La stessa Svimez appare abbarbicata ad una visione dello sviluppo che non tiene conto di quello che è accaduto in questi anni, per effetto della crisi e non solo. L’idea è quella di sempre, invero un po’ consumata: fiscalità di vantaggio, rilancio degli investimenti, una politica industriale nazionale specifica per il Sud che si snodi su quattro direttrici: «rigenerazione urbana, rilancio delle aree interne, creazione di una rete logistica in un’ottica mediterranea, valorizzazione del patrimonio culturale».
Certo, di fronte a tante lacrime di coccodrillo, in questa proposta c’è qualcosa che va nella direzione giusta, a cominciare da una rivalutazione del ruolo dello stato e delle politiche pubbliche in funzione anticiclica, per la crescita e l’occupazione. Essa però è timida, riluttante, su un punto: sulla necessità che lo Stato direttamente crei nuova occupazione per rimettere da subito in moto l’economia e dare un po’ di ossigeno alle nuove generazioni.
La Pubblica Amministrazione deve tornare ad assumere nel Mezzogiorno, come nel resto del paese. In questi ultimi 6 anni si sono persi oltre 400.000 posti di lavoro nella P.A. in Italia, di cui 180.000 nel Mezzogiorno. Mancano medici,infermieri, insegnanti, ricercatori universitari, ferrovieri, assistenti sociali, ecc., perché il tourn over è fermo da troppo tempo. Nell’immediato questa, insieme alla creazione diretta di lavoro attraverso i fondi strutturali europei, è la sola risposta possibile al dramma della disoccupazione di massa che colpisce i giovani del Sud. Non solo, ma ridando risorse alla Scuola, Università e Sanità, si eleverebbe la qualità della vita nel nostro Sud, si ridurrebbe drasticamente l’emigrazione “sanitaria” e “universitaria” (che arricchiscono le regione del Centro-Nord) e si creerebbero le condizioni perche i nostri talenti possano restare e scommettere su un futuro diverso.
E’ da folli pensare che la questione possa essere affrontata con vecchie ricette liberiste (meno tasse alle imprese = più crescita, flessibilità nel mercato del lavoro) come sta facendo il governo Renzi, sotto dettatura di Confindustria e della Troika. La vecchia storiella per cui il poter licenziare più liberamente e pagare meno tasse possano compensare il crollo della domanda interna che si è registrato in questi anni , non ha nessuna prova scientifica su cui basarsi. Una storiella che non tiene conto di un dato: nel settore privato il lavoro dipende dal fatturato delle imprese: se nessuno compra per chi si produce? Perché investire ed assumere?
Ma anche ammesso che al Sud ci fosse un sistema produttivo da cui ripartire nonostante una momentanea battuta d’arresto, siamo sicuri che ad incrementi di Pil corrispondano proporzionalmente, sempre, incrementi dei livelli occupazionali? Ci sono fattori, come l’innovazione tecnologica, l’aumento della produttività del lavoro, le delocalizzazioni produttive, cambiamenti nella struttura produttiva di un paese indotti dalla stessa crisi, disallineamenti tra domanda ed offerta di lavoro, che, da questo punto di vista, potrebbero agire da freno ad una ripresa occupazionale anche in presenza di una crescita dell’economia, soprattutto se ci si riferisce al recupero dei posti di lavoro persi negli ultimi anni (jobless recovery).
Non solo. Come dimostrano i recentissimi dati sulla competizione industriale forniti dalla Commissione europea, la crisi ha incentivato il fenomeno delle delocalizzazioni produttive verso est (In Italia -20% di aziende manifatturiere e -25% di prodotto), con conseguente perdita di posti di lavoro. Ce la possiamo cavare col taglio dell’Irap o con l’abolizione dell’articolo 18 ? Non saranno di certo queste misure palliative a far recuperare al Paese il terreno perduto. Men che meno al Mezzogiorno, che, con ogni evidenza, non può essere messo in competizione con i paesi dell’ex blocco socialista, o con la Cina.
In questo quadro la scelta più semplice sarebbe quella più efficace, oltre che più ovvia: fare ripartire le assunzioni nella Scuola, Sanità, Università, trasporti locali. Al posto degli 80 euro dati a chi aveva già un reddito, si potrebbero con la stessa cifra (circa 10 miliardi annui) creare 250.000 posti di lavoro necessari nei servizi pubblici essenziali. Non c’è più tempo per aspettare improbabili “riprese” di là da venire. Il Sud è un paesi di naufraghi , bisogna agire subito.
di Tonino Perna e Luigi Pandolfi