Cinquant’anni fa, il 21 agosto del 1964, moriva a Yalta Palmiro Togliatti. Di seguito un mio scritto sulla strategia del segretario del Pci nel dopoguerra, sul Partito nuovo e la costruzione della democrazia in Italia, tratto dal libro “Un altro sguardo sul comunismo. Teoria e prassi nella genealogia di un fenomeno politico” (Prospettiva, 2011).
Non c’è dubbio che il PCI sia stato, con una certa coerenza almeno fino ai primi anni settanta, parte integrante del movimento comunista internazionale, che aveva nell’Unione sovietica e nell’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre, il suo punto di riferimento storico-politico e ideologico, la sua radice fondante. Un’ovvietà, si potrebbe dire.
Altrettanto vero è che, già a partire dai primi anni quaranta, segnatamente con il ritorno di Togliatti in Italia nel 1944, il Partito Comunista Italiano abbia profondamente rinnovato la sua strategia di lungo periodo, ragionando sulla necessità di inserirsi pienamente nel sistema democratico in formazione, adeguandosi sia organizzativamente che culturalmente alla nuova evenienza.
La “svolta di Salerno” non fu un espediente tattico per prendere tempo, in attesa del momento propizio per la rivoluzione, per l’instaurazione in Italia di un regime politico sul modello sovietico. No. Si trattò di una svolta vera, con implicazioni importanti sia sul piano teorico e programmatico che sul piano organizzativo.
L’idea di Togliatti, che alla lunga si rivelerà vincente e di grande forza propulsiva, era quella di costruire nel nostro paese un partito di massa che, sebbene regolato da una forte disciplina interna, avesse la capacità di attrarre sui contenuti della sua politica porzioni molto larghe della società italiana. Un partito che, pur non perdendo la sua natura classista, sapesse coniugare conflitto sociale e politica istituzionale, radicamento municipale e autonoma rappresentanza di classe.
Un partito nuovo insomma, non un nuovo partito, che non si limitasse alla protesta ed alla propaganda, isolato dalle dinamiche della politica nazionale, ma capace di incidere nella “vita del paese”, attraverso una presenza capillare nei luoghi di lavoro, nei grossi centri come nei piccoli villaggi, nelle amministrazioni locali e nei luoghi della formazione e della produzione culturale. Da piccola avanguardia di rivoluzionari professionali, di agitatori semiclandestini, il PCI sarebbe dovuto diventare un grande partito popolare, di quadri e di massa, aperto a tutti i lavoratori che ne avessero accettato il programma, anche a prescindere dalle personali convinzioni filosofiche e religiose. Un auspicio che con gli anni divenne realtà.
È solo il caso di ricordare, a tal propositivo, che ancora agli inizi degli anni ottanta questo partito contava un milione e mezzo di iscritti. Nel 1946 erano arrivati a più di due milioni. Numeri che non hanno eguali se rapportati alla consistenza degli altri partiti comunisti del mondo occidentale.
Non c’è dubbio che un partito di questo tipo era pensato per concorrere a determinare la politica nazionale, nel quadro di una democrazia costituzionale pluripartitica. E il gruppo dirigente del PCI non ne faceva mistero.
“L’obiettivo che noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo. Una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; le libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi avidi ed egoisti della plutocrazia, cioè del grande capitalismo monopolistico. Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza e sul dominio di un solo partito. In una parola nell’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti corrispondenti alle diverse correnti ideali e di interessi esistenti nella popolazione italiana” (Togliatti, Rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana del 1 aprile 1944).
La “via italiana al socialismo” sarebbe stata caratterizzata dunque dalla piena accettazione dei principi, delle regole, degli istituti della democrazia costituzionale appena conquistata. Una democrazia pensata come “progressiva”, che, a partire dai principi espressi nella nuova Carta costituzionale, fosse strumentale alla realizzazione di una serie di riforme strutturali dell’assetto economico e sociale italiano, che favorisse l’accesso delle masse popolari alla direzione economica e politica del paese.
Quando si parla di costituzione-programma, a proposito della legge fondamentale italiana, ci si riferisce proprio a quella sua peculiarità di non limitarsi alla fotografia dell’esistente, a quella sua precisa caratteristica di promuovere per di più la trasformazione della realtà, con l’indicazione degli obiettivi da raggiungere e degli strumenti da utilizzare a tale fine.
Non c’è dubbio che tale impostazione “programmatica” della Carta costituzionale risenta della visione “progressiva” della nuova democrazia repubblicana, per come essa fu concepita dai comunisti in quella temperie. Non solo: essa conferma il carattere non tattico della svolta, impressa da Togliatti al PCI dopo il suo ritorno in Italia.
La Rivoluzione d’Ottobre rimaneva un punto di riferimento importante, per certi versi ancora fondante del “Partito nuovo”, ma i comunisti italiani nell’assumerne il valore storico e simbolico ne prendevano anche le distanze per quanto concerneva la formazione statuale che da essa ne scaturì. La sostanziale accettazione del gioco democratico, il ripensamento del partito, anche sul piano organizzativo, costituivano di fatto una rottura secca con il modello statale sovietico, monopartitico e totalitario.
Si è molto parlato di “doppiezza” a proposito dell’atteggiamento di Togliatti e del PCInei confronti, distintamente, della democrazia italiana e del modello sovietico di transizione al socialismo. In quell’espressione non c’è dubbio che ci sia un fondo di verità. Tuttavia sarebbe sbagliato, profondamente sbagliato, leggere quell’apparente contraddizione come il segno di un’adesione opportunistica, ambigua e tattica, del PCI al nuovo corso democratico italiano.
Piuttosto la stessa andrebbe letta, anche alla luce della successiva evoluzione del partito, come il portato di una mediazione possibile tra l’appartenenza ad un movimento internazionale in cui l’Urss giocava un ruolo di leadership e la presa d’atto dell’impossibilità, oltre che dell’inopportunità, di applicare all’Italia un certo modello di organizzazione dello Stato e dell’economia.
Una considerazione questa che trova conferma anche nelle ultime riflessioni di Togliatti, quelle, per intenderci, del memoriale scritto a Yalta, prima della morte improvvisa nell’agosto del 1964. In esso, a parte le considerazioni sui rapporti all’interno del movimento comunista internazionale e le preoccupazioni sull’unità dello stesso, ciò che risalta e dà forza al nostro ragionamento è la sottolineatura dell’originalità e della diversità delle vie che avrebbero portato alla costruzione di società socialiste nei vari paesi del mondo, Italia compresa.
“Una più profonda riflessione sul tema della possibilità di una via pacifica di accesso al socialismo, ci porta a precisare che cosa noi intendiamo per democrazia in uno stato borghese, come si possono allargare i confini della libertà e delle istituzioni democratiche e quali siano le forme più efficaci di partecipazione delle masse operaie e lavoratrici alla vita economica e politica. Sorge così la questione della possibilità di conquista di posizioni di potere, da parte delle classi lavoratrici, nell’ambito di uno stato che non ha cambiato la sua natura di Stato borghese e quindi se sia possibile la lotta per una progressiva trasformazione, dall’interno, di questa natura” (Togliatti, Promemoria di Yalta).
Questo passo del Memoriale merita un supplemento di approfondimento, perché in esso sono chiaramente esplicitati i convincimenti di Togliatti sul rapporto tra il PCI e la democrazia in Italia. Parafrasando il testo, si può così sintetizzare il ragionamento del segretario del PCI: la conquista del socialismo da parte delle classi lavoratrici italiane dovrà avvenire pacificamente, allargando la base democratica dello Stato, guadagnando, con la lotta politica, spazi di potere nell’ambito delle istituzioni date.
Strategicamente i comunisti non si danno come obiettivo l’abbattimento dello Stato borghese, ma la sua progressiva riforma, per estenderne i confini di libertà e di giustizia sociale, per consentire alle masse popolari di esserne effettivamente protagoniste.
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(…) Fattori storici, contingenti, di collocazione internazionale del paese, dunque, influirono sulle decisioni di Togliatti e del gruppo dirigente del PCI nell’arco di un ventennio.
Ciò che vale la pena rilevare è che tali scelte segnarono una rottura di fatto, sia con il modello sovietico di organizzazione della società, dell’economia e dello Stato, sia con i fondamentali della teoria marxiana della storia. Anche solo come prospettiva millenaristica, i temi della dittatura del proletariato e del superamento dello Stato, perdevano ogni importanza, a favore di una nuova visione dello sviluppo socialista della società, che, anche in termini strategici, assumeva le istituzioni democratiche come luogo di elezione della lotta politica.
Non solo: la democrazia, secondo questa impostazione, diventava il fine della lotta dei comunisti, essendo il suo progressivo sviluppo la condizione necessaria per l’avanzamento dell’intera società, anche sul piano delle conquiste economiche e sociali. Potremmo dire che la lotta per il socialismo, secondo questa visione, finiva per coincidere con la lotta per l’allargamento della democrazia, per la piena attuazione dei principi della Costituzione repubblicana.
Vien da chiedersi, a questo punto, cosa rimanesse di “comunista”, proprio da un punto di vista semantico, nell’identità e nella strategia dei comunisti italiani. Se in politica, come nella vita in genere, le parole traggono il proprio significato sia dalla loro capacità di indicare oggettivamente una realtà, sia dall’uso che storicamente se n’è fatto, nel caso del PCI potremmo affermare che l’aggettivo “comunista” risulterebbe inappropriato per definirne la vera identità o, comunque, a riassumerne la sua storia complessa ed originale.
Paradossalmente, provocatoriamente, mi sentirei di dire che, se si prescindesse dal quadro delle relazioni internazionali, dal legame più allegorico che oggettivo con le esperienze del socialismo cosiddetto reale, la storia del PCI del secondo dopoguerra dovrebbe essere letta come la storia di una formazione politica post-comunista che, nei fatti, aveva compiuto uno strappo con la prospettiva marxiana di transizione al socialismo già con la svolta del 1944.
Tutto quello che verrà dopo, dagli strappi berlingueriani alla Bolognina, sarà l’esito di un processo che era iniziato proprio con la svolta impressa da Togliatti al profilo identitario e programmatico del partito, col suo ritorno dall’esilio.
Certo, con lo scioglimento del partito nel 1991, si ebbe un vero e proprio strappo anche con una certa visione critica dei rapporti economici e sociali capitalistici, che il PCI comunque aveva sempre mantenuto e continuato ad elaborare. Sia la svolta di Salerno che gli strappi berlingueriani, non misero mai in discussione il profilo anticapitalistico del PCI, nonostante la continua ricerca, sul piano teorico, di spunti per l’elaborazione di una specifica via nazionale al socialismo.
La stessa opzione eurocomunista della metà degli anni settanta, che vide il Pci di Enrico Berlinguer protagonista, insieme ai principali partiti comunisti dell’Europa occidentale, di un tentativo di ripresa della strategia politica di medio e lungo periodo dei comunisti europei, nel mentre cercava di formalizzare un chiaro distacco dal modello socialista di stampo sovietico, non rinunciava a rilanciare la sfida al modello di organizzazione capitalistico della società e dell’economia, ma anche ai vari modelli di governo socialdemocratici ormai in crisi, dopo le stagioni del successo degli anni cinquanta e sessanta.
Col XIX congresso di Bologna nel 1990 e, in maniera più chiara, con il XX congresso che si svolse a Rimini l’anno successivo, si scelse invece di recidere il rapporto, anche nominalmente, con una tradizione che, nella diversità, aveva tenuto in vita l’idea di un possibile superamento dei rapporti economici capitalistici.
Tale scelta, sebbene costituisse un elemento di rottura con tutta la storia del comunismo italiano del secondo dopoguerra, fu comunque possibile in virtù del processo di laicizzazione che negli anni investì il PCI nel suo rapporto con l’ortodossia marx-leniniana. Non si spiegherebbe altrimenti il consenso, beninteso sofferto, problematico, che quella proposta incontrò, fin da subito, sia nel gruppo dirigente nazionale, sia alla base. Evidentemente quello strappo, benché ispirato dal clima che regnava a quel tempo nel mondo, e in quello comunista particolarmente, fu anche il portato di un travaglio, intellettuale e politico al tempo stesso, che vissero alcune generazioni di comunisti italiani.
Il travaglio di chi almeno una volta nella sua vita di militante politico si sarà chiesto se la lotta per un mondo più giusto, per una società di liberi ed eguali, poteva essere condotta anche al di fuori degli orizzonti ideologici del comunismo, per come lo stesso si era inverato nella storia del Novecento.
Lo scioglimento del PCI, benché per molti versi inevitabile, non ha però aperto, almeno fino ad oggi, la strada alla rifondazione di una sinistra nuova, autonoma, del ventunesimo secolo. Fu un’occasione mancata. Al congresso di Rimini fu chiusa la vicenda del comunismo italiano, senza che ne seguisse, come Occhetto aveva auspicato, un “nuovo inizio”.
Molti, e non a torto, hanno detto che allora fu buttato, insieme all’acqua sporca, anche il bambino. Anch’io concordo con questa conclusione: le vie che intesero seguire i due tronconi del PCI, quelli che a Rimini si separarono per intraprendere rispettivamente la strada del rilancio comunista e quella del riformismo debole di stampo socialdemocratico, non seppero valorizzare l’originalità del comunismo italiano in un progetto nuovo per la sinistra del terzo millennio.
Nel secondo caso, quello maggioritario, l’ansia di accedere al governo del paese, sebbene in assenza di un progetto di rinnovamento della società, produsse addirittura una vera e propria desertificazione della memoria, una ricerca spasmodica, quanto incomprensibile, di una qualche “legittimazione democratica”, che, per le cose che abbiamo detto, risultava assolutamente insensata.
Il PCI era stato un grande partito democratico di massa, un partito del cosiddetto “arco costituzionale”, il cui “battesimo democratico” si era consumato cinquant’anni prima.
di Luigi Pandolfi
da: http://www.huffingtonpost.it/