C’è un paese reale che fa fatica a trovare spazio nel dibattito politico italiano. Storie di donne e di uomini che quotidianamente fanno i conti con la dura legge della precarietà, dello sfruttamento, della sopraffazione. E della delocalizzazione. Come gli operatori dei call center, lavoratori-simbolo dei mutamenti avvenuti in questi anni nel mondo del lavoro e della produzione, oggi protagonisti di una tenace battaglia per la difesa del proprio impiego e dei propri diritti, contro la tendenza – in crescita – delle società del comparto ad inseguire profitti più lauti spostando all’estero le proprie attività.
In questi giorni, da un capo all’altro della penisola, sta montando una fortissima protesta tra questi lavoratori – 90 mila in tutto il paese -, che il prossimo 4 giugno si ritroveranno a Roma per quella che, presumibilmente, sarà la più grande mobilitazione del settore mai vista in Italia. Prima della manifestazione, il cui logo è “L’Urlo” di Munch, si terranno dei flashmob nelle città dove hanno sede società di call center.
C’è tensione e molta rabbia in questo mondo, per il paventato rischio che dilaghi il fenomeno delle delocalizzazioni, ovvero del trasferimento del lavoro in paesi stranieri, anche europei, dove, il più delle volte, i lavoratori sono sottopagati e non godono di alcun diritto. Una doppia ingiustizia, a danno dei lavoratori italiani che perdono il posto di lavoro e dei lavoratori stranieri che finiscono per essere pesantemente sfruttati nel loro paese.
Nel mirino degli organizzatori della manifestazione nazionale anche le gare al massimo ribasso, che, molto spesso, costituiscono la vera causa dello spostamento all’estero delle attività, per compensare la riduzione del margine di guadagno sulle commesse.
La prima linea che sfilerà nella capitale sarà costituita dai lavoratori di società in crisi o a rischio chiusura che hanno fatto registrare in questi anni le maggiori criticità nel comparto, tra licenziamenti effettuati o minacciati, procedure di mobilità annunciate o avviate, trasferimenti all’estero.
Ci saranno anche i lavoratori della Sitel, l’azienda che gestiva il servizio clienti per Toshiba, Hp, Bosch, che recentemente ha chiuso la propria sede di Milano per trasferirsi in Serbia, a Belgrado, lasciando a casa circa 200 lavoratori.
Storia contraddittoria quella dei call center. Figli della new economy, per molti anni hanno rappresentato una macchina gigantesca di reclutamento lavorativo (400 mila gli occupati nel settore fino a pochi anni fa) e, al tempo stesso, il paradigma della provvisorietà del lavoro e del suo sfruttamento. In mezzo alcuni timidi ed insufficienti tentativi di stabilizzazione dei lavoratori precari, nel complesso un mondo dove c’è molto da fare ancora sul terreno dei diritti e della libertà.
di Luigi Pandolfi